NOVUS ORDO MISSÆ

 

Sommario

Introduzione

Capitolo 1 «L’INSTITUTIO GENERALIS MISSALIS ROMANI» EDIZIONE DEL 1969
    A) «L’INSTITUTIO» ED IL DOGMA DELLA TRANSUSTANZIAZIONE
    B) L’ARTICOLO NUMERO 7 DELL’«INSTITUTIO»
    C) UN SACRIFICIO PROPIZIATORIO
    D) IL «RACCONTO DELL’ISTITUZIONE»
    E) IL PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA
    F) GESÙ CRISTO, IL PRINCIPALE SACERDOTE («SACERDOS»)
    G) LA TENDENZA A RENDERE EQUIVALENTI LA «LITURGIA DELLA PAROLA» E LA «LITURGIA EUCARISTICA»
    H) IL MEMORIALE DELLA RESURREZIONE E DELL’ASCENSIONE

Capitolo 2 UN’OBIEZIONE: L’«INSTITUTIO» AFFERMA ANCHE LA DOTTRINA TRADIZIONALE
    A) PRIMA RISPOSTA: UNA REGOLA D’ERMENEUTICA
    B) SECONDA RISPOSTA: IL CARATTERE CONTRADDITTORIO DI TUTTE LE ERESIE
    C) TERZA RISPOSTA: METAFISICA NEO-MODERNISTA
    D) CONCLUSIONE

Capitolo 3 IL NUOVO TESTO DELLA MESSA E LE NUOVE RUBRICHE NELL’«ORDO» DEL 1969
    A) PREGHIERE SOPPRESSE E ALTERATE
    B) IL NUOVO CONCETTO DI OFFERTORIO
    C) LA PRIMA PREGHIERA EUCARISTICA O CANONE ROMANO
    D) LE NUOVE PREGHIERE EUCARISTICHE
    E) IL RITO DELLA COMUNIONE
    F) ALTRE MODIFICHE NELLE RUBRICHE
    G) CONCLUSIONE

Capitolo 4 MODIFICHE APPORTATE ALL’«ORDO» DEL 1969
    1. I principali punti del prologo dell’«Institutio»
    2. Il sacerdozio del popolo
    3. Il ritorno alle norme dei papi
    4. Forse che oggi questi errori non esistono più?
    5. Adattamento alle condizioni attuali
    6. «Il sacrificio eucaristico è soprattutto un’azione di Cristo»
    7. Il linguaggio della teologia moderna
    8. La revisione dell’«Institutio»
    9. Il numero 7 dell’«Institutio»
    10. Le altre numerose modifiche
    11. Modifiche nelle parti fisse della messa
    12. Conclusione

Capitolo 5 IL NUOVO ORDINARIO DELLA MESSA
    A) UNA LENTA E PRUDENTE RIFORMA
    B) I TEMPOREGGIAMENTI DI LUTERO
    C) UN LIBRO LUTERANO SULLA LITURGIA

Note

 

INTRODUZIONE

 

Il 3 aprile 1960, Paolo VI (1897-1978) pubblicò la Costituzione apostolica Missale Romanum (1), che promulgava due importanti documenti relativi alla riforma del rito   della Messa. Questi documenti sono l’Institutio generalis missalis Romani ed il nuovo Ordo Missæ (2) propriamente detto, e cioè il nuovo testo della Messa e le rubriche che l’accompagnano. La Costituzione apostolica spiega che la Messa tradizionale di rito romano data da San Gregorio Magno (540-604), venne modificata da San Pio V (1504-1572) nel 1570, in accordo con i decreti del Concilio di to (1545-1563). Essa ricorda i recenti cambiamenti introdotti nella liturgia e dichiara che la riforma della Messa, attuata ai nostri giorni, ha per scopo l’adempimento delle decisioni prese dal Concilio Vaticano II (1962-1965). Questa riforma - disse il Papa - non è stata improvvisata, ma è il risultato di un lungo ed accurato studio. Inoltre, la Costituzione apostolica indica anche i principali cambiamenti introdotti e promulgati per dare compimento all’Institutio generalis e al nuovo Ordo Missæ, rivestiti così dell’autorità papale. Entrambi i documenti entrarono in vigore il 30 novembre 1969, prima domeniva d’Avvento. L’Institutio generalis missalis Romani (3) fu redatta dalla Commissione pontificia per l’applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia (4). Come abbiamo appena visto, il Papa rivestì questa Institutio del carattere e dell’autorità di un documento pontificio. Essa comprende 341 articoli, nei quali i nuovi riti sono minuziosamente spiegati, e, allo stesso tempo, sono stabiliti i principi teorici e pratici per la celebrazione eucaristica. A riguardo del movimento liturgico sviluppatosi sotto il Pontificato di Pio XII (1876-1958), Paolo VI scrisse nella Costituzione apostolica Missale Romanum: «[…] quando che il movimento liturgico cominciò a crescere e a espandersi tra il popolo cristiano (questo movimento, che secondo l’espressione di Pio XII, Nostro predecessore di venerata memoria, dev’essere considerato come una disposizione provvidenziale per i nostri tempi, e come un salutare passaggio dello Spirito Santo attraverso la Sua Chiesa), divenne chiaro che le formule del messale romano dovevano essere restaurate ed arricchite. Il Nostro predecessore Pio XII ha intrapreso questa riforma […] (5). Il fatto che Paolo VI, riferendosi al movimento liturgico dei tempi di Pio XII, non abbia detto assolutamente nulla dei gravi errori dottrinali che avevano avvelenato vasti settori di detto movimento, ci sembra degno d’attenzione. Infatti, la magnifica innovazione liturgica iniziata nel XIX secolo dall’abate benettino di Solesmes, dom Guèranger,venne in seguito deviata dal suo vero obbiettivo da molti dei suoi adepti, incorrendo così in diverse censure da parte di Pio XII. La più grave fu l’enciclica Mediator Dei, nella quale furono accuratamente condannati molti errori che ora sono entrati nella legislazione ufficiale attraverso il nuovo «Ordo missaæ»(6). Conviene tuttavia notare che il documento di Pio XII, al quale Paolo VI fece giustamente allusione (7), mise ancora una volta in guardia i fedeli contro diverse deviazioni liturgiche già segnalate durante il pontificato di Pio XII stesso (8). Il testo della nuova messa, promulgato il 3 aprile 1969, subì varie modifiche in occasione della pubblicazione del nuovo messale, nel maggio 1970 (9). In effetti - come avremo ancora modo di dire nel corso di questa esposizione (10) - pensiamo che sia innanzitutto necessario ben conoscere il testo originale della nuova messa del 1969 per potersi in seguito pronunciare su quello del 1970. Nel primo capitolo, esamineremo l’edizione del 1969 dell’«Institutio», a cui faremo riferimento, quando sarà necessario, nei punti dei capitoli seguenti in cui parleremo delle modifiche che le parti trattate hanno eventualmente subito. Nel secondo capitolo, rileveremo un’obiezione che si può sollevare a ciò che è stato detto più sopra, e cioè che l’«Institutio» afferma ancora la dottrina tradizionale, e che, di conseguenza, le critiche formulate nel primo capitolo sono prive di ogni fondamento. Nel terzo capitolo, prenderemo in considerazione l’«Ordo» del 1969, facendo riferimento, quando sarà necessario, ai passaggi concernenti le modifiche del 1970. Nel quarto capitolo, presenteremo un breve studio sulle modifiche introdotte nel 1970. Nel quinto capitolo, analizzeremo alcune caratteristiche salienti della liturgia luterana. Nell’appendice, infine, considereremo un’altra obiezione sollevata a ciò che è stato affermato nei paragrafi precedenti; se si ammette che la Chiesa sia sempre infallibile allorché promulga leggi universali, appare a priori assurdo dubitare dell’ortodossia del nuovo testo della messa.

 

CAPITOLO PRIMO

 

«L’INSTITUTIO GENERALIS MISSALIS ROMANI» EDIZIONE DEL 1969

 

Nonostante vengano qui analizzati alcuni articoli dell’«Institutio generalis missalis Romani», edizione del 1969 (1), non è certamente nostra intenzione studiarla in modo esaustivo; ci limiteremo, infatti, solamente ad alcune osservazioni al fine di aiutare il lettore - alla luce della dottrina cattolica tradizionale - a formarsi un giudizio su questo documento (2). Insieme a queste osservazioni, presenteremo alcuni commenti sull’«Institutio» redatti da quattro autori spagnoli nell’opera «Nuevas normas de la misa (3) (Nuove norme della messa)». Si tratta della prima spiegazione sistematica del nuovo «Ordo» apparsa in Brasile (paese dell’Autore N.d.t.). Per tale motivo, essa ebbe una grande diffusione, tanto più che questo libro fa parte della celebre collezione «Biblioteca de Autores Cristianos, B.A.C.» (Biblioteca degli Autori Cristiani), dovuta ad eminenti teologi spagnoli. Questa opera, ispirata dal modernismo più estremista, contiene - come indicheremo più avanti - alcune affermazioni che si allontanano paurosamente dalla dottrina cattolica. Il fatto che pubblicazioni come questa siano permesse, rivela ancora una volta la mancanza di volontà di sbarrare la strada a questo tipo di interpretazioni del nuovo «Ordo». Pertanto non ci occuperemo della summenzionata opera della B.A.C. unicamente per il male che essa può produrre, ma soprattutto perché la sua ampia e libera distribuzione fatta attraverso i canali cattolici, mostra in quale direzione vengano interpretati l’«Institutio» ed il nuovo «Ordo».

 

A) «L’INSTITUTIO» ED IL DOGMA DELLA TRANSUSTANZIAZIONE

 

In tutto il documento, non si trova una sola volta la parola «transustanziazione»; non si parla nemmeno una volta della «presenza reale» di Cristo nell’Eucaresta (4). Esistono senza dubbio numerose allusioni, facendo uso di termini ed espressioni diverse, alla «presenza» di Nostro Signore; ma ricorrendo a questi termini e a queste espressioni, l’«Institutio» indica senza distinzione di sorta la presenza di Gesù nelle parole della Sacra Scrittura, nell’Eucarestia, in mezzo a quelli che sono riuniti nel Suo nome, ecc… Ecco qualche testo significativo(5);

N° 1: «[Nella messa] i misteri della Redenzione sono ricordati durante l’anno, in maniera che essi divengono in qualche modo PRESENTI».

N° 9: «Quando la Sacra Scrittura viene letta in chiesa, Dio stesso parla al Suo popolo, e CRISTO, PRESENTE NELLA SUA PAROLA, annuncia il Vangelo».

N° 28: «Alla fine del canto d’entrata, il sacerdote e tutta l’assemblea fanno il segno della Croce. Subito dopo, tramite un saluto, il prete manifesta all’assemblea riunita la PRESENZA del Signore […]».

N° 33: «[…]. Nelle letture che l’omelia commenta, Dio parla al Suo popolo, rivela il mistero della Redenzione e della salvezza, ed offre un nutrimento spirituale; e Cristo medesimo DIVENTA PRESENTE tra i fedeli mediante la Sua parola […]».

N° 35: «Alla lettura del Vangelo, dev’essere accordata la più grande venerazione. È ciò che la liturgia stessa insegna, poiché lo circonda di un onore speciale, superiore a quello accordato alle altre letture; da parte del ministro […]; da parte dei fedeli, riconoscendo e professando per mezzo di acclamazioni CRISTO PRESENTE CHE PARLA A LORO, e ugualmente ascoltando in piedi la medesima lettura; lo stesso per mezzo dei segni di venerazione […]».

N° 48: «L’ultima Cena, in cui Cristo ha istituito il memoriale della Sua morte e della Sua resurrezione, DIVIENE INCESSANTEMENTE PRESENTE NELLA CHIESA quando il sacerdote, rappresentante del Signore Gesù, fa ciò che Cristo stesso ha fatto e ha raccomandato di fare ai Suoi discepoli […]». «[…]. Nella preghiera eucaristica, è reso grazie a Dio per tutta l’opera della salvezza, e LE OFFERTE DIVENTANO IL CORPO ED IL SANGUE DI CRISTO (6)».

«[…] mediante la comunione, i fedeli ricevono il Corpo ed il Sangue del Signore nel medesimo modo in cui gli Apostoli la ricevettero dalle mani di Cristo stesso (7)».

N° 60: « […]. Quando [il sacerdote] celebra l’Eucarestia, deve servire Dio ed il popolo degnamente ed umilmente, e SUGGERIRE AI FEDELI LA PRESENZA VIVENTE DEL CRISTO, attraverso il suo comportamento e mediante il modo con cui pronuncia le parole divine (8)».

Al n. 241, l’unico in cui l’«Institutio», nell’edizione del 1969, fa allusione al Concilio di Trento, leggiamo: «[…]. Soprattutto, [i ministri del culto] devono far ben comprendere ai fedeli che la fede cattolica insegna che sotto un’unica specie È RICEVUTI IL CRISTO COMPLETAMENTE ED INTERAMENTE ed il vero sacramento […]». Il n. 55 dell’«Institutio» illustra le diverse parti del canone, attualmente chiamato «la preghiera eucaristica». A proposito della consacrazione ( paragrafo «d»), leggiamo quanto segue: «Il racconto dell’istituzione: in questa parte tramite le parole e gli atti di Cristo, l’ultima cena diventa nuovamente presente [REPRÆSENTATUR]; nel corso di quest’ultima il Signore Gesù Cristo ha istituito il sacramento della Passione e della Resurrezione, donando agli Apostoli il Suo Corpo ed il Suo Sangue da mangiare e da bere sotto le specie del pane e del vino, e ordinando loro di perpetuare lo stesso mistero (9)». La parola latina «repræsentatur» è tradotta, nella versione delle Edizioni Vozes, che stiamo citando (10), con «diventa nuovamente presente». Senza dubbio la parola ha questo significato, ma ne ha anche un altro che il traduttore conosceva, ed è per questo che ha messo il termine latino tra parentesi. Il significato «è rappresentata», da al testo una forte tinta di protestantesimo, in quanto la messa non è una semplice rappresentazione, ma un vero rinnovamento del sacrificio di Nostro Signore. Del resto, notiamo che l’«Institutio», in questo articolo non dice che Cristo diventa nuovamente presente (repræsentatur», ma dice che l’ultima cena è rappresentata in questa parte della messa (11). D’altra parte, l’affermazione che segue, secondo cui Nostro Signore donò il Suo Corpo ed il Suo Sangue da mangiare e da bere, sotto le specie del pane e del vino, è a rigore accettabile anche per i protestanti. Ciò che essi negano, è la transustanziazione; ecco la vera linea di demarcazione fra cattolici e protestanti (12).




L’assenza del termine «transustanziazione» dal testo primitivo dell’«Institutio» è incomprensibile (13). Nel 1786 fu riunito a Pistoia un sinodo giansenista che approvò diverse proposizioni relative all’Eucarestia. In esso si parlò anche della «presenza reale» e si ammise anche la cessazione completa delle sostanze del pane e del vino nelle specie consacrate, ma non si usò mai la parola «transustanziazione». Questa omissione fu condannata nel 1794 da Pio VI come «perniciosa, pregiudizievole all’esposizione della verità cattolica sul dogma della transustanziazione, e favoreggiatrice l’eresia» (14). Inoltre, Pio VI dichiarò che il termine «transustanziazione» non può essere considerato come una semplice espressione tecnica appartenente alla Scolastica, ma che esso deve essere assolutamente utilizzato nell’esposizione del mistero della presenza reale (15). Quindi, se alla fine del XVIII secolo, la soppressione del termine «transustanziazione» era considerata un errore favorente l’eresia, lo stesso errore meritava ai nostri giorni una condanna ancor più ferma. In effetti, pur essendo perfettamente a conoscenza del fatto che c’è chi da tempo tenta di sostituire la nozione di transustanziazione con altri concetti teologicamente inaccettabili, come quelli di «transfigurazione», «transignificazione» o «transfinalizzazione» (16), l’«Institutio», nell’edizione del 1969, osserva a proposito della transustanziazione un silenzio assai biasimevole. D’altronde, «transustanziazione» è un vocabolo che il Concilio di Trento, usufruendo della sua infallibilità, ha dichiarato più che idoneo per indicare la conversione delle sostanze del pane e del vino nelle sostanze del Corpo e del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo (17). Notiamo ancora che il testo dell’«Institutio» del 1969, compilato soprattutto per spiegare cosa sia la messa, non dice affatto (al contrario del sinodo di Pistoia che almeno l’ha dichiarato) che esiste una «presenza reale» di Nostro Signore nell’Eucarestia, e che dopo la Consacrazione le sostanze del pane e del vino cessano di esistere.

 

B) L’ARTICOLO NUMERO 7 DELL’«INSTITUTIO»

 

Una definizione della messa, anche se puramente descrittiva - non importa in quale contesto - non può difettare del suo elemento principale: la nozione di sacrificio (18). Nell’edizione del 1969, il capitolo dell’«Institutio» che tratta della «struttura generale della messa», inizia con una frase (n° 7) che non possiede per nulla le caratteristiche di una definizione della messa, e nella quale, tra l’altro, non si parla di sacrificio: «La cena del Signore o messa, è la sacra sinassi o assemblea del popolo di Dio, che si riunisce, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. Perciò la promessa di Cristo si applica eminentemente all’adunata locale della Santa Chiesa: «Là dove due o tre sono riuniti nel Mio nome, Io sono in mezzo a loro» (Mt XVIII, 20)». Soprassederemo a questa nuova ambiguità, legata alla nozione della «presenza» di Cristo, secondo la quale la principale presenza di Nostro Signore nella messa è di ordine spirituale, e non la presenza sostanziale sotto le specie consacrate. Tralasceremo anche il tentativo continuo, fatto nell’«Institutio», di introdurre espressioni che affievoliscono l’opposizione al protestantesimo o il senso sacrificale della messa, quali «cena del Signore», «popolo di Dio» o «memoriale del Signore». Ed infine non tratteremo, per il momento, dell’affermazione secondo cui il sacerdote «presiede» l’assemblea, nozione assai cara ai protestanti, poiché essa insinua che il sacerdote è in primo luogo un delegato del popolo, o il primus inter pares, e non il ministro sacro eletto da Dio, che agisce al posto di Cristo (in persona Christi). Tale questione sarà analizzata più oltre (19). Per ora, considereremo solamente il punto centrale del momento: la definizione di messa che questo articolo sembra contenere. In questa definizione è completamente assente ogni allusione al sacrificio; è assente soprattutto qualsiasi riferimento alla propiziazione, e cioè alla riparazione che Cristo offre nella messa per i peccati degli uomini, in modo tale che se l’articolo in questione pretende di presentare una definizione della messa, si tratta di una definizione falsa e contraria al Concilio di Trento. Tuttavia, gli autori dell’«Institutio» tentano di discolparsi negando che questo articolo contenga una definizione propriamente detta. Ecco come l’allora segretario della Commissione per la riforma della Liturgia, Mons. Bugnini, riportò le conclusioni della XII sessione plenaria di questo organismo, in cui furono studiate le obiezioni fatte all’articolo 7 dell’«Institutio»: «I Padri [cardinali e vescovi membri della Commissione] hanno considerato alcune difficoltà recentemente manifestatesi a proposito di alcuni punti dell’«Institutio generalis missalis Romani». Essi hanno ricordato che l’«Institutio generalis» non è un testo dogmatico, ma piuttosto una pura e semplice esposizione di norme che regolano la celebrazione eucaristica (20); essa non cerca di dare una definizione della messa, ma vuole unicamente presentare una descrizione del rito (21). Da un punto di vista teologico, la messa può essere argomentata da alcuni paragrafi dell’«Institutio» (22), e ciò è riconosciuto da tutti i trattati di teologia e dai documenti pontificali a carattere dottrinale (23)». Ma anche se si prende il n° 7 dell’«Institutio», nell’edizione del 1969, come una definizione non essenziale (34), risulta impossibile accettarlo, poiché esso comunque costituisce una clausola che presenta ai fedeli, a proposito della messa, un’asserzione perlomeno insidiosa; allo stesso tempo essa insinua che qualcosa è cambiato nella concezione tradizionale della mesa intesa come sacrificio.

 

C) UN SACRIFICIO PROPIZIATORIO

 

A ciò che abbiamo appena detto circa l’assenza della nozione di sacrificio nella definizione apparente o reale della messa, contenuta nell’articolo 7 citato più sopra, si potrebbe replicare che, anche nella sua prima edizione, l’«Institutio» afferma a più riprese che la messa è un sacrificio; così ai nn. 2, 48, 54, 56 h, 60, 62, 153, 259, 335 e 339. I difensori dell’«Institutio» hanno addotto che non è il caso di biasimare l’assenza della nozione di sacrificio nel n° 7, in quanto tale nozione appare spesso in altri punti dell’«Institutio» stesso. Vista la natura di tale asserzione, non insisteremo oltre sul fatto che da tale articolo non si doveva omettere di fare qualche riferimento al sacrificio; questo punto è già stato studiato. Vorremmo peraltro dimostrare che le allusioni alla nozione di sacrificio fatte dall’«Institutio» sono del tutto insufficienti per distinguere la concezione cattolica dalle nozioni protestanti della mensa del Signore.




In effetti, come si saprà, il sacrificio della messa ha una quadrupla finalità: l’adorazione, l’azione di grazie, la propiziazione e l’impetrazione (25). Ciò che è in questione nella vecchia disputa a questo proposito fra cattolici e protestanti, non è propriamente parlando il carattere sacrificale della messa, ma piuttosto il suo carattere propiziatorio. In altri termini, cattolici e protestanti ammettono che la messa è un sacrificio di lode e di rendimento di grazie; ma i protestanti negano (ed è questa la loro eresia in materia) che la messa costituisce un sacrificio propiziatorio (26). È dunque della più grande importanza verificare se l’«Institutio» ammette la nozione di PROPIZIAZIONE, o se, al contrario, essa non parla che di SACRIFICIO, e passa sotto silenzio il carattere PROPIZIATORIO della messa. Tutto ciò è della massima importanza dal momento che il Concilio di Trento ha definito la messa come un «sacrificio veramente propiziatorio» (27) e che ha scagliato questo anatema: «e qualcuno afferma che il sacrificio della messa è solamente di lode e d’azione di grazie, od una semplice commemorazione del sacrificio consumato sulla croce, ma che esso non è propiziatorio […], sia anatema» (28). Analizzando i diversi passaggi del testo dell’«Institutio» del 1969 che parlano del sacrificio, constatiamo che il carattere propiziatorio della mesa non è affermato in nessuno di essi (29). Al contrario, vi si fa continuamente riferimento alla messa intesa come sacrificio di lode, d’azione di grazie, di commemorazione del sacrificio della croce, tutti aspetti reali, ma che il Concilio di Trento ha dichiarato insufficienti per la concezione cattolica della messa. Nei testi dell’«Institutio» che citeremo tra breve, evidenzieremo in maiuscolo i passaggi concernenti gli aspetti non propiziatori del sacrificio. Il N° 2 parla dei frutti della messa: «per il conseguimento dei quali il Signore Gesù Cristo ha istituito il SACRIFICIO EUCARISTICO (30) del suo Corpo e del suo Sangue e l’ha affidato alla sua amatissima sposa, la Chiesa, COME UN MEMORIALE DELLA SUA PASSIONE E DELLA SUA RESURREZIONE». N° 48: «L’ultima Cena, in cui Cristo ha istituito IL MEMORIALE DELLA SUA MORTE E DELLA SUA RESURREZIONE, diventa incessantemente presente nella chiesa, allorché il sacerdote, rappresentante del Signore Gesù, FA CIÒ CHE CRISTO STESSO FECE E CHE RACCOMANDÒ DI FARE AI SUOI DISCEPOLI IN SUA MEMORIA, istituendo il SACRIFICIO e la cena pasquale»(31).

N° 54: «Allora comincia la fase centrale e suprema di tutta la celebrazione, e cioè la PREGHIERA EUCARISTICA stessa, una PREGHIERA D’AZIONE DI GRAZIE E DI SANTIFICAZIONE […]. Ecco il senso di questa preghiera: tuta l’assemblea dei fedeli si unisce a Cristo nella PROCLAMAZIONE DELLE MERAVIGLIE DI DIO e nell’OFFERTA DEL SACRIFICIO».

N° 335: «La Chiesa offre il SACRIFICIO EUCARISTICO del Passaggio [la Pasqua] di Cristo per i morti, in modo tale che, mediante la comunione di tutte le membra di Cristo tra loro, ciò che OFFRE UN’ASSISTENZA SPIRITUALEad alcuni, DISPENSA ad altri IL CONFORTO DELLA SPERANZA». I nn. 56h, 60, 62, 153 e 339 fanno riferimento al sacrificio che è celebrato nella messa, senza tuttavia presentare dei chiarimenti maggiori sulla natura del sacrificio. È il caso anche del N° 259, che non fa che collegare indirettamente l’idea del sacrificio con «la mensa del Signore» e «l’azione di grazie».




Del resto, l’«Institutio», nella sua prima edizione, usa a più riprese alcune espressioni dal contenuto sacrificale, come «ostia», ma in nessun punto viene affermato il carattere propiziatorio della messa.




Nell’«Institutio» si incontrano anche alcune espressioni che tendono a lasciare in ombra il carattere sacrificale e propiziatorio della messa. È il caso dell’insistenza esagerata sul principio (di per sé incontestabile) che nella messa vi è un banchetto, poiché Gesù Cristo ci dona il suo Corpo ed il suo Sangue in qualità di alimenti. Questo aspetto della messa è indubitabilmente vero, ma deve essere subordinato all’aspetto sacrificale e propiziatorio, tanto più che i protestanti tentano di ridurre il sacrificio eucaristico ad un banchetto, come si può vedere dalla già citate condanne proclamate a Trento (32): «Se qualcuno dice che, nella messa, non è offerto a Dio un vero e proprio sacrificio, o che Cristo offrendo sé stesso NON FA NULLA DI PIÙ CHE DONARSI A NOI COME ALIMENTO, sia anatema» (33). Ora, il testo dell’«Institutio» del 1969, che non fa allusione al «sacrificio» che in una decina di occasioni, fa uso tantissime volte di espressioni relative alle agapi eucaristiche, come ad esempio: «cibo spirituale», «cena», «mensa del Signore», «convito» (convivium), «collazione», ecc… Lo stesso ai nn. 2, 7, 8, 33, 34, 41, 48, 49, 55 d, 56, 56 g, 62, 240, 241, 259, 268, 281, 283 e 316.




Se passiamo dall’«Institutio» al commento della B.A.C., notiamo che in quest’ultimo le omissioni e le ambiguità tendenti a celare il carattere sacrificale e propiziatorio della messa sono ancora più numerose. Nei 171 articoli dell’indice analitico dell’opera, le parole «sacrificio» e «propiziazione» non compaiono mai. Trattando dei luoghi dove dev’essere celebrata la messa (che, secondo la pratica tradizionale, sono le chiese), i commentatori della B.A.C. affermano: «Questi luoghi hanno - ci sia permesso il paragone - qualcosa di un grande refettorio per banchetti; di una sala conferenze, dove si ascolta la saggezza di Dio; di un teatro dove si assiste al grande spettacolo della teofania; di un salotto per conversazioni, dove si dialoga con Dio; di una sala da feste, dove i credenti esprimono la loro gioia» (35). Notiamo come essi parlino di tutto, tranne che di una chiesa propriamente detta, cioè di un luogo sacro nel quale Nostro Signore, veramente presente, s’immola sugli altari in propiziazione per i peccati degli uomini. Più avanti, essi commettono nuovamente la stessa ingiustificata omissione. Dopo aver affermato in maniera ambigua che i fedeli devono «offrire dovunque un sacrificio spirituale» (36), così proseguono: «Questa idea di una riunione cristiana dev’essere alla radice di tutte le strutture di una chiesa: un’assemblea di Gesù Cristo e dei suoi fratelli per ascoltare la parola di Dio, per rispondere a questa parola con la loro gratitudine, i loro canti e le loro suppliche, ed anche affinché si realizzi tra loro l’amore che Cristo, durante il banchetto, ha raccomandato come il segno distintivo dei suoi discepoli. Tutto ciò che serve ad evidenziare questa realtà (37) è da incoraggiare; tutto ciò che la contraddice è da deplorare»(38). Presentando la nuova concezione dell’altare, i commentatori della B.A.C. sottolineano nuovamente la stessa idea: «Infatti, l’altare è soprattutto, come il testo stesso dell’«Institutio» dice a più riprese, la mensa del Signore (nn. 49, 259, ecc…), e ciò deve apparire dal suo addobbo, dalle sue tovaglie, dalla forma della sua costruzione, dalla catechesi impartita al popolo da esso, per i motivi che sono dati per giustificare la sua venerazione. Se più avanti, con il fluire del tempo, l’altare ha anche assunto il carattere d’una tomba dei martiri e di un altare del sacrificio, tali aspetti possono essere complementari, ma non devono in alcun modo influenzare lo spirito delle persone che si riuniscono per celebrare il memoriale del Signore. Così l’«Institutio» che domanda che l’altare sia sempre presentato come la mensa del Signore, non è altrettanto categorica nemmeno a proposito delle reliquie» (40).

 

D) IL «RACCONTO DELL’ISTITUZIONE»

 

L’edizione dell’«Institutio» del 1969 contiene un altro passo dottrinalmente riprovevole; è l’articolo «d» del già citato N° 55 (41), che tratta ex professo della Consacrazione. Esso inizia col titolo narratio institutionis, ovvero il «racconto dell’istituzione». Ora, secondo la dottrina cattolica, il sacerdote che consacra non «ripete» solamente ciò che fece il Signore durante la Santa Cena, ma agisce in persona Christi, al posto di Cristo, prestandoGli la sua bocca e la sua voce. Secondo i protestanti invece, nella Consacrazione, il ministro non fa che ripetere le parole dei Vangeli, le parole di Cristo, ricordando così l’ultima cena. Siccome secondo loro non c’è alcuna transustanziazione, questo racconto può bastare, poiché non è né necessario, né possibile che le parole di Cristo siano pronunciate dal sacerdote in modo affermativo ed imperativo (42). Ecco la gravità di questo sottotitolo: narratio institutionis (43). Del resto, questo passo è ancora più sospetto se si pensa al già segnalato silenzio del documento nella sua prima edizione, a proposito dei concetti di «presenza reale» e di «transustanziazione» (44). La stessa ambiguità è presente anche nel commento della B.A.C. sulla natura della Consacrazione (45). Esponendo questa parte centrale della messa, gli autori adottano una posizione che corrisponde pienamente ai principii protestanti: «[la preghiera eucaristica] è un’azione consacrante poiché, tramite essa, si effettua la santificazione delle offerte» (46). Altri passi di quest’opera formulano concezioni protestanti: si insinua ad esempio, che la presenza di Nostro Signore nell’Eucarestia è equivalente alla «presenza reale» nelle letture della Sacra Scrittura fatte durante la messa (47); si lascia intendere che la transustanziazione non è realizzata nel momento preciso in cui il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione (48), ecc…

 

E) IL PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA

 

Secondo la definizione del Concilio di Trento, «il sacerdozio è stato istituito dal Salvatore, che in esso donò ai Suoi Apostoli ed ai loro successori il potere di consacrare, d’offrire ed amministrare il Suo Corpo ed il Suo Sangue, così come di perdonare e di ritenere i peccati» (49); ciò perché il potere di consacrare appartiene al sacerdote e non al popolo. Se le Sacre Scritture e la teologia cattolica parlano di «sacerdozio» dei fedeli, lo si deve intendere nel senso più ampio del termine, e cioè per indicare semplicemente la consacrazione di tutti i battezzati all’opera divina, in unione con Nostro Signore, sommo ed eterno sacerdote (50). Confondere il sacerdozio del popolo con quello del prete, significa ancora una volta adottare un principio protestante; in effetti, secondo gli pseudo-riformatori del XVI secolo, il celebrante è sacerdote allo stesso titolo del popolo, in quanto non fa che presiedere l’assemblea eucaristica in qualità di delegato degli assistenti. Su questo punto, l’«Institutio» conserva ancora alcune espressioni della dottrina tradizionale, aggiungendovi però nozioni e principii che insinuano o contengono le tesi protestanti. E così al N° 10, si legge che il sacerdote «presiede l’assemblea, rappresentando Cristo (personam Christi gerens)», ed al N° 60, che «il sacerdote […] presiede l’assemblea riunita, operando al posto di Cristo (in persona Christi præest)» (51). Il N° 48 afferma che il sacerdote «rappresenta Cristo (Christum Dominum repræsentas)». Come si può notare, queste espressioni hanno ancora un’«impronta» del tutto tradizionale; esse sono i termini tecnici che designano il modo in cui il celebrante agisce al posto di Nostro Signore. Nondimeno, tali espressioni figurano qui in un contesto che provoca una certa perplessità. Da un lato, non si dice cosa significhi esattamente «prendere il posto di Cristo» o «rappresentarLo»; dall’altro, l’«Institutio» contiene numerosi passi che insinuano che il celebrante sia un semplice presidente dell’assemblea, e che la sua principale funzione nel corso della messa consista nel rappresentare i fedeli ivi riuniti. Tutto ciò apre la strada ad una interpretazione in senso largo della «rappresentanza» di Cristo (per es.: che ogni cristiano sia un altro Cristo), e non in senso stretto e preciso di sacerdote che viene semplicemente qualificato come presidente dell’«assemblea del popolo di Dio» (52). Questo articolo è della massima importanza poiché, anche se non lo si intende come una definizione della messa, esso è quantomeno destinato ad orientare i fedeli verso una «migliore» comprensione della messa (53).

2° - Nel N° 10, immediatamente dopo l’affermazione secondo cui il sacerdote presiede l’assemblea rappresentando Cristo, l’«Institutio» dichiara che la preghiera eucaristica costituisce una preghiera «presidenziale». Lo stesso articolo definisce «le preghiere presidenziali» quelle «che sono indirizzate a Dio A NOME DI TUTTO IL POPOLO SANTO E DI TUTTI COLORO CHE SONO PRESENTI» (54). Ogni lettore, dopo questo passo, sarà portato a pensare che dopo la Consacrazione il sacerdote parla principalmente a nome del popolo. Senza dubbio alcune parti della preghiera eucaristica sono indirizzate a Dio a nome del popolo, ma la parte principale, la Consacrazione, è pronunciata dal sacerdote esclusivamente a nome di Nostro Signore. È impossibile per un cattolico, su questo punto, ammettere ambiguità. Così il N° 10 dell’«Institutio» è uno dei più inaccettabili di tutto il documento (55).

3° - Il principio che troviamo enunciato al N° 12 è particolarmente terribile: «LA NATURA delle parti «presidenziali» esige che esse siano pronunciate a voce alta ed intelligibile, ed ascoltate da tutti con attenzione. Per tale motivo, è bene che nel momento in cui il sacerdote le pronuncia, non si dicano altre preghiere o inni, e che l’organo o tutti gli altri strumenti musicali tacciano» (56). Dunque, le parole della Consacrazione devono venire anch’esse pronunciate secondo queste condizioni, questo insinua ancora una volta, che in quel dato momento il sacerdote agisce specificatamente in qualità di delegato del popolo. Inoltre, questo articolo dell’«Institutio» contiene un’evidente ed importante contraddizione con l’«Ordo» tradizionale, secondo cui il canone non viene pronunciato «a voce alta ed intelligibile». Questo atto merita un’attenzione del tutto particolare, visto l’anatema lanciato dal Concilio di Trento: «Se qualcuno dice che il rito della Chiesa romana secondo cui una parte del canone e le parole della Consacrazione vengono pronunciate a bassa voce dev’essere condannato […], sia anatema» (57). Dichiarando che è la natura delle parti «presidenziali» (e dunque della preghiera eucaristica e delle parole della Consacrazione) che esige che esse siano pronunciate a voce alta ed intelligibile, l’«Institutio» pone un principio valevole per tutti i tempi, ed afferma per conseguenza ed implicitamente che il Concilio di Trento su questo punto si è sbagliato (58).

4° - Il N° 271 formula una nuova critica alla messa tradizionale, basata anch’essa sulla falsa nozione di funzione «presidenziale» del celebrante: «Il seggio del celebrante deve simbolizzare la sua funzione di presidente dell’assemblea e di guida della preghiera. Per questa ragione, la sua posizione più adatta è di fronte al popolo, in fondo e nel mezzo del santuario […]». Secondo l’«Ordo» romano, il sacerdote sta normalmente di fronte all’altare, poiché egli è soprattutto il sacrificatore che, al posto del Verbo Incarnato, si presenta davanti all’Eterno Padre (59). La modifica introdotta deriva dunque dalla nozione di «presidenza» dell’«assemblea», in opposizione alla dottrina tradizionale.




Nel commento della B.A.C., incontriamo un’importante conferma del fatto che l’«Ordo» del 1969 ha introdotto una nuova nozione, che non può che richiamare l’idea protestante di «presidenza» dell’«assemblea» esercitata dal celebrante (60): «[…], è il popolo di Dio, e non precisamente il ministro che celebra […]» (61). «L’assemblea è l’opera di tutti. Tutti sono battezzati e partecipano all’unico sacerdozio di Cristo. Tutti sono ripieni di Spirito Santo» (62). «Tutto questo ritmo armonico e strutturale dona al mistero la possibilità di essere celebrato da tutta l’assemblea, e non solamente dai chierici o da una parte del popolo. Nel testo di numerosi articoli dell’«Institutio», percepiamo un soffio artistico ed un tono della celebrazione che ingloba tutto il popolo celebrante» (63). «Quando coloro che sono battezzati si riuniscono, esercitano tutti il loro sacerdozio battesimale. Dopo secoli, nel corso dei quali la sola azione dei ministri è apparsa nel corso della celebrazione, possiamo rimettere le cose nella loro giusta collocazione. Il popolo di Dio è - tutt’intero - un popolo sacerdotale […]. Dal popolo di Dio sorgono generalmente i ministri: seguono i vescovi, i sacerdoti ed i diaconi, ordinati per questo tramite un sacramento, fino agli accoliti, ai musicanti, agli uscieri, ecc… […], tutti devono collaborare per un migliore esercizio del sacerdozio comune» (64).




Come si è visto, l’«Institutio» insinua una nozione errata circa il sacerdozio dei fedeli, e la prestigiosa collezione della B.A.C. pubblica un commento dell’«Institutio», nel quale questa nozione viene nuovamente affermata. L’impunità con cui quest’opera circola, porta il fedele a credere che essa interpreti e sviluppi correttamente il testo dell’«Institutio». L’ampia diffusione di questo commento - che attualmente è alla sua ottava edizione - mostra come tale erronea concezione del sacerdozio si radichi nel popolo.

 

F) GESÙ CRISTO, IL PRINCIPALE SACERDOTE («SACERDOS»)

 

Secondo la definizione del Concilio di Trento, nella Santa Messa Gesù Cristo «s’immola per la Chiesa mediante le mani del sacerdote»(65). Per tale motivo, si dice che Nostro Signore è il principale sacerdos di tutte le messe, mentre il prete è un sacerdos secondario, ministeriale o strumentale. D’altra parte, il sacerdozio del celebrante è - come abbiamo già osservato (66) - essenzialmente diverso da quello del popolo, in modo che il popolo non partecipa alla messa alla stessa maniera del sacerdote. Negare queste verità, significa cadere nell’errore protestante. In questa materia, l’«Institutio» non è affatto esplicita, poiché se da un lato essa contiene alcune espressioni che si possono prendere come affermazioni della dottrina tradizionale (67), dall’altro, occorre notare che, nel suo insieme, essa lascia il campo libero ad alcune interpretazioni che sono semplicemente sbagliate. In effetti, più di una volta il documento afferma che Nostro Signore è il principale «sacerdos» e che il celebrante esercita un sacerdozio secondario e ministeriale, benché essenzialmente differente da quello del popolo (68).




Come per i summenzionati nn. 1 e 4, gli autori della B.A.C. approfittano ancora una volta delle imprecisioni e dei silenzi dell’«Institutio» per esporre una teoria del sacerdozio (di Cristo, del prete e del popolo) che si allontana fondamentalmente dalla dottrina della Chiesa. In questo commento della B.A.C., a proposito del principio secondo cui l’Eucarestia è un’«azione di Cristo», si legge: «Il Cristo agisce personalmente in ogni celebrazione; Egli è l’unico «sacerdote» del popolo cristiano […], a tal punto che la rivelazione cristiana ha deliberatamente evitato di usare il termine «sacerdoti» per identificare coloro che presiedono le riunioni liturgiche dei cristiani, usando altri vocaboli come vescovi o presbiteri (anziani), o semplicemente ministri (strumenti, servitori) di Cristo (69) […]. Ecco cosa significa la prima affermazione - così profonda sul piano teologico - dell’«Institutio»: l’Eucarestia è un’azione di Cristo […]» (70).

Continuando ad esporre l’asserzione secondo cui l’Eucarestia è un’«azione del popolo di Dio gerarchicamente organizzato», i redattori della B.A.C. scrivono: «Parlando dell’Eucarestia […], non vi è detto che questa sia una azione del sacerdote alla quale il popolo si unisce, (come la messa è stata frequentemente presentata fino a poco tempo fa), ma più esattamente che essa è l’azione di questo popolo, servito dai ministri che, precisamente per mezzo del loro ministero, donano al popolo la presenza sacramentale del loro Signore. Si può qui ripetere ciò che fu detto al Concilio al momento del rigetto dello schema proposto per la Costituzione della Chiesa. In effetti, si sa che nel progetto di questa Costituzione […], la Chiesa veniva presentata sotto forma d’una «piramide», che partiva dal papa e dai vescovi per scendere fino all’ultimo fedele, e si sa anche che questo schema, che corrispondeva alla teologia classica di questi ultimi secoli (71), fu rigettato in quanto poneva ciò che è relativo e di servizio (la gerarchia) al di sopra della realtà ontologica assoluta (il popolo di Dio)». «Allo stesso modo, e certamente già come una conseguenza di questa nuova e più giusta visione della Chiesa, l’Eucarestia non viene presentata come un’azione del celebrante, alla quale il popolo si unisce, ma come un’azione del popolo di Dio. Tutto ciò è importante, dal momento che la direzione pastorale mette in rilievo questa affermazione per non incorrere nel pericolo di presentare la partecipazione dei fedeli alla messa come subordinata a quella del ministro. In verità, la partecipazione del popolo non è allo stesso livello di quella del celebrante. La questione si pone su due differenti realtà: la partecipazione del popolo è una cosa che gli appartiene perché la Chiesa tutt’intera è il Corpo di Cristo che si unisce al suo Capo per la celebrazione; d’altra parte il celebrante, per quanto sia distinto dai fedeli, non ha che una funzione ministeriale; attraverso questo ministero i fedeli sono uniti a Cristo, ed è con Cristo che celebrano l’Eucarestia. È per tale motivo che si afferma che l’Eucarestia è un’azione di Cristo ed un’azione del popolo di Dio (72)». «A questo proposito è ugualmente interessante porre l’accento sulla menzione esplicita delle modalità con cui il popolo di Dio celebra l’Eucarestia; in effetti, esso la celebra come un’assemblea gerarchicamente organizzata. In questa frase, non si parla assolutamente d’identificare tra i membri del popolo di Dio quelli che sono i più o i meno degni; non bisogna parlare di diversità di dignità, ma piuttosto di scambio di servizi tra i discepoli di Colui che ha voluto che il più grande fosse il servitore degli altri»(73). I cattolici non possono assolutamente accettare questa concezione egualitaria ed «orizzontale» della Chiesa.

 

G) LA TENDENZA A RENDERE EQUIVALENTI LA «LITURGIA DELLA PAROLA» E LA «LITURGIA EUCARISTICA»

 

Le eresie tendono sempre a sopravvalutare l’importanza della Sacra Scrittura a detrimento delle formule liturgiche d’origine ecclesiastica e della celebrazione eucaristica propriamente detta. In questo modo, esse tentano di ridurre al silenzio la tradizione, e di diffondere i loro falsi dogmi dicendo che questi poggiano sulla Rivelazione (74). L’«Institutio» - non si può dubitarne - contiene dei passaggi che sembrano affermare il primato della «liturgia eucaristica» sulle letture bibliche. È il caso del N° 54, che colloca «l’apice ed il centro di tutta la celebrazione» nella preghiera eucaristica. Tuttavia, altri passi dell’«Institutio», che non sono stati del tutto modificati nella nuova edizione, sembrano sopravvalutare l’importanza delle Sacre Scritture, tanto da provocare in alcuni momenti, nel lettore, l’impressione che esse hanno la stessa importanza del culto dedicato a Nostro Signore. Nel N° 8, per esempio, leggiamo: «La messa è in un certo qual modo, costituita da due parti: la liturgia della Parola e quella dell’Eucarestia, così intimamente unite tra loro da formare un unico atto di adorazione. In effetti, durante la messa, la mensa della Parola di Dio è imbandita - come quella del Corpo di Cristo - per istruire e nutrire i fedeli. ci sono così alcuni riti che aprono e terminano la celebrazione». Secondo il N° 9, quando in chiesa si legge la Sacra Scrittura, «Cristo, presente nella Sua Parola, annuncia il Vangelo»; e le letture bibliche «apportano alla liturgia un elemento di massima importanza» (maximi momenti). Certamente, l’espressione «maximi momenti» può essere interpretata come un superlativo assoluto e non relativo, e cioè che essa non indica necessariamente che le letture bibliche costituiscono l’elemento più importante della messa. Tuttavia, una simile interpretazione non è esclusa, per cui vi è il pericolo di cadere nell’errore protestante: sopravvalutare il valore delle Sacre Scritture in rapporto alla presenza reale nell’Eucarestia. Aggiungiamo che più di una volta l’«Institutio» dichiara che «tramite la Sua parola Cristo stesso diventa presente in mezzo ai fedeli» (75).




Considerate nel loro insieme, le disposizioni dell’«Institutio» possono dare luogo ad un pericoloso equivoco circa la vera importanza delle letture bibliche della messa. I redattori della B.A.C., sempre pronti a scoprire le ambiguità dell’«Institutio» per spiegarle in senso neo-modernista e protestante, scrivono: «[…] di solito, la situazione privilegiata per ascoltare la Parola di Dio è l’assemblea [la messa]. Tutti devono recarvisi come quando si accostano alla Comunione eucaristica: disposti a non perderne colpevolmente il più piccolo frammento, poiché Cristo è ugualmente presente in entrambi» (76). In un altro passaggio, gli autori della B.A.C. stabiliscono un nuovo paragone tra la «liturgia della Parola» e l’Eucarestia, con termini che tendono a conferire loro un’eguale dignità: «Sia la Costituzione Sacrosanctum concilium (N° 7) che l’enciclica Mysterium Fidei mettono in rilievo la PRESENZA REALE di Cristo nella Sua Chiesa, NELL’ASSEMBLEA DI PREGHIERA, allorché la SACRA SCRITTURA è letta o proclamata, o quando il SACRAMENTO DELL’EUCARESTIA è offerto o realizzato» (77). È difficile immaginare una teoria più radicale o più audace per mettere le letture bibliche e la Santa Eucarestia sullo stesso piano. Sempre a proposito delle letture della Bibbia durante la messa, l’«Institutio» al N° 9 dichiara: «Quando in chiesa si leggono le Sacre Scritture, DIO STESSO PARLA al Suo popolo, e Cristo, PRESENTE NELLA SUA PAROLA, proclama il Vangelo». «[…]. Benché la parola divina racchiusa nelle letture della Sacra Scrittura sia indirizzata a tutti gli uomini di ogni epoca e che sia intelligibile PER TUTTI, la sua efficacia è accresciuta dall’esposizione vivente ed omelia, che fa parte dell’azione liturgica» (78). È facilmente constatabile fino a che punto questa asserzione favorisca l’errore protestante secondo cui lo Spirito Santo illumina direttamente ciascun fedele che legge la Bibbia, senza passare attraverso il magistero vivente della Chiesa, e non ammettendo che una semplice spiegazione del ministro destinata ad «accrescere» i frutti della lettura. Tirando le conseguenze di quest’articolo dell’«Institutio», i redattori della B.A.C. scrivono: «Quando un credente la legge (la Sacra Scrittura), soprattutto in un’atmosfera comunitaria, si potrebbe dire nel suo brodo di cultura normale (sic), LO SPIRITO FA SGORGARE dal cuore dei fedeli tramite la Sua Grazia, UN’ATTITUDINE CHE PERMETTE ALLE ANTICHE PAROLE DI PRODURRE UNA NUOVA VITA. E così, come il Cristo storico continua ad essere compiuto nel Cristo mistico, in modo da prolungare l’incarnazione di Dio tra gli uomini, anche LA SCRITTURA CONTINUA AD ESSERE COMPIUTA NELLE NOSTRE VITE FINO AL RITORNO DI CRISTO, E TUTTI NOI DIVENTIAMO LA PAROLA DI DIO FATTA CARNE, FATTA VITA UMANA a Sua immagine e somiglianza» (79). Non riteniamo necessario commentare queste espressioni degli autori della B.A.C..

 

H) IL MEMORIALE DELLA RESURREZIONE E DELL’ASCENSIONE

 

Uno dei mezzi impiegati dagli eretici dei nostri tempi per dissimulare il carattere sacrificale e propiziatorio della messa, consiste nell’accentuare eccessivamente il fatto (reale, ma subordinato) che la messa non rievoca solamente la morte di Nostro Signore, ma anche la Resurrezione e l’Ascensione. Noi diciamo che la messa non ricorda la Resurrezione e l’Ascensione che in maniera subordinata, poiché nella sua realtà sacrificale e propiziatoria e nei suoi elementi simbolici essenziali, la messa è innanzitutto e direttamente il rinnovamento del sacrificio della Croce. Per questo motivo essa richiama alla mente la morte di Nostro Signore. Tuttavia, come nel mistero del Calvario - che ha veramente realizzato la nostra Redenzione - erano implicati anche tutti gli altri misteri e tutti gli altri avvenimenti della vita di Cristo, si può e si deve ritenere che la messa richiama anche - ma subordinatamente - la Resurrezione (80), l’Ascensione, il fatto che Nostro Signore si è seduto alla destra di Dio Padre, ecc… L’«Institutio», nell’edizione del 1969, sembra ignorare questa distinzione, provocando in tal modo confusione per quanto riguarda i concetti. Così la messa, nel N° 2, è chiamata il «memoriale della Passione e della Resurrezione» di Cristo; al N° 48 si legge che nel corso dell’ultima cena «Cristo ha istituito il memoriale della Sua morte e della Sua Resurrezione» (81); al N° 55, vi è detto che immediatamente dopo la Consacrazione, «la Chiesa celebra il memoriale di Cristo, rievocando principalmente la Sua santa Passione, la Sua gloriosa Resurrezione e la Sua Ascensione al Cielo»; al N° 55 d, si afferma che durante l’ultima cena, Nostro Signore «ha istituito il sacramento della Passione e della Resurrezione» (82); il N° 335 definisce la messa «il sacrificio eucaristico della Pasqua di Cristo», ed i NN. 7 e 268 dichiarano che nella messa celebriamo il «memoriale del Signore». I redattori della B.A.C. confermano in pieno i timori espressi in precedenza. Essi manifestano un’avversione particolare per l’accento di santa e sacrificale tristezza che caratterizza la messa tradizionale, anche nei giorni di festa. Questa tendenza a ridurre l’Eucarestia ad una celebrazione gioiosa che non esprime che allegrezza, diventa evidente nel seguente paragrafo: «Incoraggiare a dare al canto una grande importanza è più che opportuno (N° 19) dell’«Institutio»). Ciò in quanto l’Eucarestia è il sacramento della Pasqua del Signore, l’attesa del Suo glorioso ritorno ad una celebrazione gioiosa del trionfo di Cristo che è già stata realizzata e che si attende per tutta la Chiesa. Il canto è l’espressione naturale di questa gioia» (83).

 

CAPITOLO SECONDO

 

UN’OBIEZIONE: L’«INSTITUTIO» AFFERMA ANCHE LA DOTTRINA TRADIZIONALE

 

Prima di passare all’analisi del nuovo «Ordo», occorre confutare l’obiezione sollevata spesso a coloro che, nei più diversi paesi, hanno dichiarato inaccettabile la recente riforma della messa. Tale obiezione appare, a prima vista, così valida che vorremmo qui esaminarla con tutta la nostra attenzione, consacrandole un capitolo speciale. I difensori della nuova messa presentano generalmente questo argomento: nell’«Institutio» (edizione del 1969 e soprattutto del 1970) esistono alcuni passi che affermano i principi tradizionali sugli stessi punti che alcuni ritengono esposti in modo insufficiente o sospetto. In realtà, i testi incerti devono essere interpretati con l’aiuto di testi più chiari, e quelli che appaiano eterodossi devono esserlo con l’ausilio di quelli che sono ortodossi. In tal modo, il documento considerato nel suo insieme non può essere giudicato come sospetto. Per sostenere questo ragionamento, i partigiani della nuova messa adducono che, nel suo testo primitivo, l’«Institutio» non parla di transustanziazione, ma dice a più riprese che, al momento delle preghiere eucaristiche, il Corpo ed il Sangue del Signore divengono presenti; il termine «propiziazione» non figura, ma sono utilizzate espressioni come «Redenzione», «salvezza» e «purificazione dei peccati». La funzione presidenziale del sacerdote è accentuata, ma il testo insiste ugualmente sul fatto che egli celebra come rappresentante di Cristo; le letture bibliche sono fortemente valorizzate, ma è chiaramente affermato che il centro della messa è la preghiera eucaristica, ecc… D’altra parte - così continuano i difensori del nuovo «Ordo» - nell’edizione del 1970, l’«Institutio» espone ancor più chiaramente queste tesi tradizionali, benché sussistano alcuni passi dubbi.

 

A) PRIMA RISPOSTA: UNA REGOLA D’ERMENEUTICA

 

Di fronte a questa obiezione, non esamineremo i casi particolari esposti. In tutti i casi (come abbiamo dimostrato nel precedente capitolo, e come dimostreremo in quelli successivi), l’affermazione tradizionale - in rapporto all’affermazione contraria - è in qualche modo posta in secondo piano. Ma andiamo ad esaminare teoricamente il principio enunciato in questa obiezione, e cioè che i testi oscuri e sospetti di un documento cessano di esserlo quando nello stesso documento sono presenti testi ortodossi concernenti le stesse questioni. È necessario dare qui una prima risposta di ordine ermeneutico che esponiamo in modo schematico:

A) Per principio, la regola secondo cui i testi oscuri e confusi di un documento si devono interpretare con l’aiuto di testi più chiari, è vera.

B) Ma la regola secondo cui i testi sospetti ed eterodossi debbono essere interpretati mediante i testi eterodossi, non può essere ammessa senza restrizioni:

a) questa regola non si può applicare che nei casi in cui i passi sospetti o eterodossi non compaiono che di quando in quando, e quasi per errore;

b) tale regola non regge più se questi passi sono numerosi (in quanto, ciò che si produce per errore è, per natura, fortuito e non frequente): in questa ipotesi, bisogna ricorrere ad altre regole e metodi d’interpretazione;

c) e allorché questi passi confusi, sospetti ed eterodossi, considerati nel loro insieme, non solo sono numerosi, ma formano un sistema di pensiero, la regola d’interpretazione poc’anzi enunciata non è più valida, ma si applica la regola inversa: è necessario chiedersi se non sono i testi ortodossi che si devono interpretare alla luce dei passi confusi, sospetti ed eterodossi. Spieghiamo più dettagliatamente questo principio.




Il lapsus, non è mai cosa abitualmente frequente e, soprattutto, non può costituire un sistema. Dunque, nell’ipotesi che è stata esposta, non è affatto legittimo interpretare i passi non ortodossi avvalendosi dei passi ortodossi. Benché questi ultimi, infatti, pendano in favore dell’ortodossia del documento, è impossibile - visto il contesto - eliminare o diminuire il sospetto (1). Non considerando che astrattamente la situazione, non si deve dimenticare che gli eretici - fintanto che non rompono con la Chiesa - hanno l’abitudine di presentare la loro dottrina alternando passaggi ortodossi ad altri confusi, ambigui, sospetti ed eterodossi. In questo caso, e nell’ipotesi che stiamo analizzando, i testi ortodossi non solamente perdono parecchio del loro significato favorevole, ma diventano la causa di un ulteriore e grave motivo di sospetto. Giacché vogliamo fare astrazione da chiunque, onde poter considerare il problema con rigore scientifico, è necessario chiedersi se non sono i passi oscuri e sospetti a fornire la vera chiave d’interpretazione del testo, ivi compreso il senso reale dei paragrafi che appaiono ortodossi. In altri termini, bisogna domandarsi se, in effetti, i passi ortodossi non debbano essere interpretati avvalendosi di quelli che sono in disaccordo con la sana dottrina. Questo ci conduce ad una seconda risposta all’obiezione vista precedentemente.

 

B) SECONDA RISPOSTA: IL CARATTERE CONTRADDITTORIO DI TUTTE LE ERESIE

 

Oltre alla summenzionata regola d’ermeneutica (e per contribuire a renderla più esplicita), occorre considerare alcuni argomenti di ordine diverso. Su di un piano scientifico, non è possibile trattare seriamente problemi come quelli di cui attualmente ci stiamo occupando senza ricorrere all’aiuto che la storia ci può offrire. Ciò premesso, ci sembra indispensabile esporre alcune osservazioni fondate sul modus operandi degli eretici nel corso dei secoli. Uno studio sommario della storia degli eretici, è sufficiente a dimostrare che tutti hanno tentato di camuffare le loro vere intenzioni, almeno fino alla rottura definitiva con la Chiesa cattolica. «Questa tendenza - scrive Mons. Antonio de Castro Mayer - a conciliare gli estremi inconciliabili, a trovare una linea mediana tra la verità e l’errore, si è manifestata fin dalle origini della Chiesa. […]. Quando l’arianesimo fu condannato, questa tendenza diede alla luce il semi-arianesimo. Quando il pelagianesimo fu condannato, essa generò il semi-pelagianesimo. Quando il protestantesimo fu condannato a Trento, essa lanciò il giansenismo. Ed allo stesso modo nacque il modernismo - condannato da San Pio X - mostruosa confluenza d’ateismo, di razionalismo, d’evoluzionismo e di panteismo in una scuola che vuole pugnalare alle spalle la Chiesa. Pur restando nella Chiesa, la setta modernista aveva come obiettivo quello di falsificare la vera dottrina - che esteriormente fingeva d’accettare - attraverso dei sofismi, delle argomentazioni e delle riserve. Questa tendenza non è scomparsa; si potrebbe ugualmente dire che essa fa parte della storia della Chiesa» (2). Un attento esame di questa magnifica pagina dell’illustre vescovo di Campos dovrebbe bastarci per comprendere quanta prudenza e diffidenza dobbiamo usare quando ci accostiamo ai passi tradizionali o apparentemente tradizionali, che i progressisti mettono a fianco delle loro oscure e sospette affermazioni. Una così strana coesistenza di asserzioni opposte, ci obbliga pertanto ad isolare ancora un altro aspetto della storia degli eretici: essi, non contenti di mascherarsi, hanno all’occorrenza l’abitudine di ammettere alcuni principi apertamente contraddittori. Frequentemente, essi collocano a fianco dell’errore, una verità che gli è diametralmente opposta; se li si interroga, grazie a questa tattica, essi possono sempre addurre che il passo eterodosso deve essere interpretato in funzione di quello ortodosso, ma ai loro proseliti essi insegnano che in realtà è la tesi erronea che prevale. Numerosi sono gli esempi di queste contraddizioni tra gli eretici che la storia ci tramanda. Analizziamone brevemente alcuni:

 

1. L’arianesimo

Non è raro vedere la contraddizione, tra gli eretici, sfiorare il livello della menzogna. Il falso giuramento di fede cattolica che Ario fece dinanzi all’imperatore Costantino è noto a tutti (3).

 

2. Il pelagianesimo

I pelagiani facevano sovente riferimento alla Redenzione. Chiunque li abbia letti senza tenere conto del fatto che gli eretici hanno l’abitudine di utilizzare l’arma della contraddizione per ingannare i loro avversari, potrebbe credere che essi ammettevano l’idea di Redenzione. Niente di più falso. Nel Dizionario di teologia cattolica, R. Hedde ed E. Amann danno a questo fatto la seguente spiegazione: «Si tendeva ad abolire l’idea cristiana di Redenzione. Senza dubbio, i pelagiani parlavano spesso di Redenzione; ne avevano conservato il termine, ma non la sostanza. Essi parlavano della remissione dei peccati fondata sulla morte di Cristo, ma il loro modo d’intendere il peccato e l’effetto del peccato sull’uomo li costringeva ad intendere questa remissione nel senso nominalista di non-imputazione dei peccati commessi; essa non era che una giustificazione esteriore» (4). Numerosi sono, tra i pelagiani, i diversi esempi di contraddizioni che altro non erano che vere menzogne. Nel 415, fu riunito a Diospolis un sinodo per giudicare gli eretici Pelagio e Celestio. Dopo aver accuratamente esaminato gli scritti di Celestio, il sinodo lo condannò. Le opere di Pelagio non furono analizzate, ma i Padri lo giudicarono solo dopo le dichiarazioni che l’interessato fece al sinodo stesso, che finì per assolverlo. Avendo riportato i commenti di Sant’Agostino sull’episodio, R. Hedde ed E. Amann scrivono: «La carità di Sant’Agostino lo spinse ad aggiungere che egli non voleva affermare che Pelagio mentiva rinnegando tali dottrine, e pertanto s’impose questa conclusione. Pelagio non fu assolto dal concilio di Diospolis grazie ad alcune reticenze che assomigliavano stranamente a delle menzogne»(5). Più tardi, la perfidia di Pelagio e dei suoi partigiani giunse ad ingannare lo stesso Papa San Zosimo. Quest’ultimo, avendo convocato nel 417 un sinodo a Roma, specialmente per giudicare i pelagiani, ed avendo proceduto immediatamente ad un attento esame dei loro errori, finì per assolvere Pelagio ed alcuni dei suoi seguaci all’epoca di un nuovo sinodo. In una lettera datata 21 settembre 417, destinata ai Vescovi dell’Africa, San Zosimo li biasimò per avere prestato fede alle accuse portate a carico di Pelagio; dopo aver espresso la gioia che la professione di fede dei pelagiani aveva causato a «quei santi uomini che erano presenti», il Papa aggiunse: «Alcuni contennero a mala pena i loro gemiti e le loro lacrime pensando che uomini dalla fede così integra avevano potuto essere così ferocemente calunniati». A questa lettera, San Zosimo allegò alcuni scritti di Pelagio, e disse ai Vescovi d’Africa: «La loro lettura vi causerà verosimilmente la Nostra stessa gioia»(6). Le menzogne erano veramente moneta corrente presso i pelagiani. Sant’Agostino, «sempre così moderato» (osservano R. Hedde ed E. Amann), disse di uno di loro (Giuliano d’Eclane) che egli era «mendacissimus» (più che bugiardo) nella professione di fede che faceva(7).

 

3. Il monotelismo

A proposito del monotelismo, M. Jugie scrive: «Il monotelismo è l’eresia-camaleonte per eccellenza. Via via che è stata smascherata e che ha incontrato della resistenza, essa è indietreggiata ed ha fatto delle concessioni, cosicché il suo punto d’arrivo è la contraddizione perfetta del suo punto di partenza» (8).

 

4. Il protestantesimo

Le contraddizioni in cui Lutero cadde in seno alla riforma della liturgia da lui stesso attuata, sono tanto manifeste quanto quelle presenti nelle dottrine con le quali egli pretese di giustificarla. Studiando la teoria luterana sulla presenza reale, J. Paquier scrive (9): «[…] quand’è che Gesù Cristo è presente nel pane e nel vino? Di solito Lutero ci dice che ciò avviene unicamente al momento della Consacrazione e della Comunione. Ma su questo punto, come su tantissimi altri, egli abbonda di contraddizioni» (10). Lutero non giunse mai a mettere a fuoco nella pratica le sue concezioni reali sulla liturgia: «Tuttavia, i cambiamenti furono fatti timidamente; così volle un certo buon senso di Lutero e la falsità dei suoi comportamenti per anestetizzare la popolazione […]»(11). Malgrado i suoi violenti attacchi contro la messa romana, Lutero permetteva all’occorrenza ai suoi partigiani di celebrarla, a condizione che essi interpretassero le formule del messale alla luce dei nuovi concetti (12), ed in molti punti egli mantenne le stesse cerimonie tradizionali contro cui vituperava così furiosamente, «ma non si trattava che di apparenze svuotate del suo contenuto» (13). Vedete dunque, come venivano gravemente ingannati coloro che, assistendo a tali cerimonie liturgiche luterane, giudicavano che, essendo queste ultime identiche o quasi alle cerimonie cattoliche, non potevano essere l’opera di veri eretici. Un altro esempio caratteristico di contraddizione nell’insegnamento protestante ci è dato da San Roberto Bellarmino: «[…] fin dagli inizi, essi dichiaravano che la Chiesa è invisibile. Ma, più tardi, vedendo le assurdità che ne derivavano, essi stabilirono - per mezzo di una deliberazione segreta - che la Chiesa sarebbe stata considerata visibile. Da allora, iniziarono ad insegnare che la Chiesa è visibile, e cioè nominalmente visibile, benché realtà invisibile» (14).

 

5. Il giansenismo

Uno dei principali errori di Giansenio, condannati dalla Santa Sede, riguardava la nozione di libertà (15). In ultima analisi, la sua tesi eretica consisteva nella negazione della libertà umana. Pertanto nella sua principale opera, Augustinus, questa tesi, pur essendo sempre presente, è continuamente dissimulata in alcune proposizioni ambigue, in distinzioni speciose e formulazioni ingannevoli. In ciò non vi è nulla di straordinario, perché si sa che le eresie hanno sempre cercato di camuffarsi, allo scopo di meglio ingannare gli imprudenti. Ma oltre alle ambiguità ed ai sofismi, Giansenio cadde - su questo punto e su altri - in alcune contraddizioni franche ed aperte. J. Carreyre, nel Dizionario di teologia cattolica, dopo aver esposto l’errore di Giansenio riguardante la libertà umana, scrive: «Talvolta Giansenio sembre modificare il suo linguaggio: così egli dice che essere libero, significa esse sui iuris, habere in sua potestate actus suos (avere per diritto il potere sulle proprie azioni) (Aug., libro VI, cap. III), e conclude che i movimenti indeliberati che precedono la ragione non sono liberi (ibid., cap. XXXVI e XXXVIII)» (16). Uno spirito ingenuo e desideroso di provare che Giansenio era innocente dell’accusa di eresia, vedrebbe in questo passo la prova assoluta dell’ortodossia del Vescovo di Ypres. Questa era in effetti l’interpretazione che i suoi davano all’opera del maestro, negando che essa contenesse gli errori condannati da Innocenzo X (17). Ma J. Carreyre ci da l’interpretazione reale di questi testi: «Ma, in questi passi ed in altri simili, Giansenio intende queste espressioni in un senso tutto particolare. Ordinariamente, si dice che un atto è in nostro potere, quando dipende da noi compiere o non compiere quell’atto, quando è in noi il potere di scegliere tra due atti e che per conseguenza, la nostra volontà non è determinata a scegliere a tale atto. Ora, per Giansenio, è sufficiente che la volontà non sia costretta per coazione o violenza esterna, perché si possa dire che questo atto è in nostro potere (Aug., libro VIII, cap. IV, VI, VIII, XXXV e XXXVIII) […]». «Il potere di scegliere il bene o il male, consiste unicamente - secondo Giansenio - nel fatto che la volontà vuole ed agisce spontaneamente e con gusto, e non suo malgrado, sotto i colpi della violenza o della costrizione […]. È dunque semplicemente un potere senza costrizione e senza violenza e non una facoltà che, a suo piacimento e da sé stessa prende questa o quella risoluzione»(18). E non è solamente nelle loro dichiarazioni specificatamente dottrinali che gli eretici non esitano, al bisogno, a contraddire a testa bassa le loro stesse idee. Un esempio ci è dato dall’approvazione accordata da Giansenio al libro del Cardinale de Bèrulle, Grandezze di Gesù. Siccome quest’opera contiene delle affermazioni opposte ad alcune dottrine gianseniste, un osservatore imprudente potrebbe credere che, attraverso questa approvazione, il Vescovo di Ypres esprimesse il suo pensiero reale circa le summenzionate dottrine. La verità è che Giansenio non approvò l’opera che per guadagnare la simpatia del Cardinale de Bèrulle; si sa infatti che egli non aveva deliberatamente letto il libro prima d’approvarlo, per timore di incontrarvi dei passi contrari alle sue idee (19).

 

6. Il modernismo.

A riguardo delle flagranti contraddizioni in cui caddero i modernisti, San Pio X scrive: «Ciò che illumina ancor di più le dottrine dei modernisti, è il loro modo d’agire, in perfetto accordo con il loro insegnamento. IN QUELLO CHE ESSI SCRIVONO E DICONO, SEMBRANO SPESSO CONTRADDIRSI, IN MANIERA CHE SI POTREBBE CREDERLI ESITANTI ED INCERTI. NONDIMENO, ESSI COSÌ AGISCONO DELIBERATAMENTE E CON PREMEDITAZIONE, in accordo con l’opinione che professano sulla separazione della fede dalla scienza. A causa di questo, nei loro libri si incontrano delle affermazioni che un cattolico approverebbe subito, ed alla pagina seguente, delle frasi che si attribuirebbero ad un razionalista. Scrivendo sulla storia, essi non parlano affatto della divinità di Cristo, ma la professano fermamente allorquando pregano in chiesa. In storia, essi non fanno mai alcun riferimento ai Padri; tuttavia, essi conferiscono a quest’ultimi un posto di prima scelta quando insegnano il catechismo. Allo stesso modo, essi separano l’esegesi teologica e pastorale dalle interpretazioni scientifiche e storiche […]» (20).

 

7. L’eresia anti-liturgica

Nelle sue Istituzioni liturgiche, dom Guèranger mette in rilievo la contraddizione che è propria degli eretici in materia di culto. Egli enuncia quattordici principi che reggono ciò che egli chiama l’«eresia anti-liturgica» (21), e che è il substrato comune alle innovazioni liturgiche apportate da tutte le eresie. riportiamo qui il quarto principio che, per alcuni aspetti, presenta un punto di contatto con il tema che stiamo trattando. Dopo aver fatto incidentalmente riferimento, nei primi tre punti, alle varie contraddizioni degli eretici, dom Guèranger scrive: «Non ci si deve meravigliare della contraddizione che l’eresia presenta nelle sue opere, quando si sa che il quarto principio - o se si vuole - la quarta necessità imposta ai settari dalla natura stessa del loro stato di rivolta, è un abituale contraddizione con i propri principi. Così dev’essere per confonderli in quel grande giorno, che presto o tardi verrà, in cui Dio rivelerà le loro nudità alla vista dei popoli che hanno sedotto, e anche perché non è dell’uomo essere coerente; solo la Verità può esserlo. Innanzitutto, tutti i settari - senza eccezione - iniziano col rivendicare i diritti dell’antichità; essi vogliono purificare il Cristianesimo da tutto ciò che l’errore e le passioni degli uomini hanno aggiunto di falso e d’indegno di Dio, e non desiderano nulla che non sia primitivo, pretendendo di riprendere dalla sua nascita l’istituzione cristiana.

A tal fine, essi sfrondano, cancellano, sopprimono; tutto cade sotto i loro colpi, e quando ci si attende di vedere riapparire il culto divino nella sua originale purezza, si scopre che esso è ingombro di formule nuove, composte la sera del giorno prima, e che sono incontestabilmente umane, poiché colui che le ha redatte vive ancora. Tutta la setta subisce questa necessità; l’abbiamo ritrovata nei monofisisti, nei nestoriani e la ritroviamo presso tutte le branche protestanti. La loro ostentazione a predicare l’antichità non è approdata ad altro che a metterli in grado di scalzare tutto il passato, dopodiché essi si sono posti dinanzi ai popoli sedotti, ed hanno loro giurato che tutto ciò era stato fatto per il bene comune, che le lordure papiste erano scomparse e che il culto divino era ritornato alla sua santità primitiva. Evidenziamo ancora un’altra caratteristica dei cambiamenti che gli eretici introducono nella liturgia. Essa sta nel fatto che, nella loro rabbia innovatrice, essi non si accontentano di sfrondare le formule di stile ecclesiastico - che disonorano in nome della parola umana - ma estendono la loro riprovazione alle letture ed alle stesse preghiere che la Chiesa ha ricavato dalla Sacra Scrittura; essi cambiano, sostituiscono, non vogliono pregare con la Chiesa, scomunicandosi così da sé stessi, e così paventando fino alla più piccola particella di ortodossia che ha presieduto alla scelta di questi passi»(22).

 

C) TERZA RISPOSTA: METAFISICA NEO-MODERNISTA

 

Il passo di San Pio X che abbiamo appena citato a riguardo delle contraddizioni in cui sono caduti i modernisti è particolarmente illuminante, poiché ci rivela che non è solamente per questione di tattica, ma anche per sistema che essi in una pagina affermano senza pudore ciò che negavano in quella precedente. Qualcosa di analogo, lo si può ritrovare tra i progressisti (che altro non hanno fatto che rilanciare il modernismo facendo uso di termini adatti ai nostri tempi). In realtà, oltre alle già enumerate ragioni di ordine tattico, i progressisti hanno un ulteriore motivo per difendere alcune posizioni apparentemente tradizionali a fianco di posizioni eterodosse. La fenomenologia, che essi professano in campo filosofico, li conduce ad un estremo particolarmente acuto di metafisica relativista. In questo parossismo latitudinario sono amalgamate tutte le filosofie del presente e del passato: hegelismo, esistenzialismo, personalismo, dottrine gnostiche d’Oriente e d’Occidente, liberalismo, marxismo, ecc… Come potranno non includervi anche il tomismo? Ma come potranno includervelo, visto che il tomismo è diametralmente opposto a questo sincretismo relativista? In termini fenomenologici, questa difficoltà è facilmente risolvibile. È sufficiente, per esempio, «mettere tra parentesi»(23) l’oggettivismo fondamentale del tomismo, o meglio, ad invitarlo a reinterpretarsi, a «ripensarsi», su di una base hegeliana o neo-hegeliana (24), accogliendo così un ospite supplementare al banchetto neo-modernista. Per esempio, si può affermare che la celebrazione della messa è un’azione di Cristo e del «popolo di Dio gerarchicamente organizzato» (25) dando però un nuovo significato alla nozione di «organizzazione gerarchica» (come fanno i commentatori della B.A.C.) (26), affermando che essa non implica dei gradi superiori o inferiori di dignità. Si può ammettere (altro esempio fornito dagli autori della B.A.C.) (27) che nell’Eucarestia c’è una presenza reale di Cristo, ma considerando che questa «presenza reale» è identica alla presenza di Cristo nell’«assemblea di preghiera». Ricapitolando, la preoccupazione di mascherarsi è particolarmente sentita dai progressisti; essi sanno benissimo che se i fedeli conoscessero le loro reali intenzioni, li ripudierebbero immediatamente. Proclamare la dottrina tradizionale per poi relativizzarla - al punto da asserire il contrario di ciò che si è appena detto - è (come già lo fu per il modernismo) una tattica caratteristica del neo-modernismo progressista. Tuttavia questo modo di procedere non è semplicemente una tattica, ma è anche ino degli elementi basilari della metafisica neo-modernista stessa, o piuttosto, un elemento della dialettica dell’anti-metafisica hegeliana e fenomenologica dei neo-modernisti (28).




Alcuni esempi presi dalle nuove teorie sull’indissolubilità del matrimonio (punto dottrinale completamente estraneo a ciò che stiamo trattando) mostrano fino a che punto i progressisti utilizzino le risorse dialettiche della contraddizione.

 

1° - Nel suo libro Le mariage en notre temps (Il matrimonio ai nostri giorni), Padre Bernard Haëring, ex teologo al Concilio, considerato dai progressisti come il miglior moralista della nostra epoca, propone furtivamente ai cattolici l’accettazione del divorzio. Per esempio, parlando dei divorziati risposati, egli scrive: «A poco a poco, succede che entrambi si formano una coscienza erronea. Dato che, umanamente parlando, stanno bene insieme, essi, giorno dopo giorno, si persuadono che Dio accorda la Sua benedizione alla loro unione. Benché essi ammettano che forse il divorzio sia annullato da un nuovo matrimonio, sono tuttavia soggettivamente convinti - a torto o a ragione - che, nel loro caso, il matrimonio sia invalido. Ne deducono che la loro nuova unione, benché non possa essere contratta in chiesa, non è davanti a Dio diversa da un vero matrimonio. In rapporto a questo problema, occorre anche constatare la mancanza d’istruzione su ciò che concerne queste tematiche. Non di rado, accade che queste persone, andando a confessarsi in una chiesa dove sono sconosciuti o dove non si conosce la loro situazione, senza accennare al matrimonio invalido, s’accusano sinceramente dei loro altri peccati e si comunicano con devozione. Può anche darsi che Dio, riconoscendo la loro buona volontà soggettiva, gli conferisca la Sua grazia, benché, malgrado tutto, si dovrebbe teoricamente dichiarare invalido il loro matrimonio»(30). Più avanti, trattando i casi di giovani persone divorziate e risposate, Padre Haëring esprime queste idee: «Anche se essi non hanno fatto tutto ciò che dovevano fare per vivere insieme come fratello e sorella, la loro perseveranza a difendere l’indissolubilità del matrimonio e i loro sforzi per preservare gli altri da una simile situazione, si accordano con i loro sinceri sforzi di preparazione e d’anticipazione di una futura professione di fede sacramentale. Se, dopo ogni caduta, essi si pentono per amor di Dio, se pregano insieme, se frequentano gli uffici divini e se con tutti i mezzi tentano di vivere cristianamente, allora essi sono senza alcun dubbio sul cammino della luce, e probabilmente, perlopiù in stato di grazia» (31). In questi testi di Padre Haëring appaiono già diverse contraddizioni. Ma è particolarmente significativo il fatto che, in uno dei primi paragrafi del capitolo dedicato a questi problemi, egli dichiari: «È evidente che il principio della Chiesa secondo cui le persone divorziate il cui primo matrimonio celebrato in chiesa (e quindi davanti a Dio e alla loro coscienza) era valido, NON HANNO ALCUN DIRITTO AD UN NUOVO MATRIMONIO, continua ad essere incrollabilmente certo; e che un matrimonio civile da esse contratto, non è agli effetti un vero matrimonio» (32).

 

2° - Il 29 settembre 1965, il vicario patriarcale dei melchiti d’Egitto, Mons. Elias Zoghby, pronunciò al Concilio un discorso sensazionale, facendosi avvocato del divorzio nel casi di giovani persone ingiustamente abbandonate dal proprio coniuge (33). Tuttavia, qualche giorno dopo, tentando di sbarazzarsi dello scandalo provocato dal suo precedente discorso, Mons. Zoghby prese di nuovo la parola. Continuando a difendere la stessa tesi sul divorzio, egli fece delle dichiarazioni, apparentemente non equivoche, stando alle quali aderiva alla dottrina tradizionale sul matrimonio: «Nel mio discorso [del 29 settembre] ho affermato chiaramente il principio immutabile dell’indissolubilità del matrimonio […]» (34). «Questa indissolubilità è così ben ancorata nelle tradizioni delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, sia ortodossa che cattolica, che non può essere rimessa in questione da un discorso al Concilio.

Infatti, la tradizione ortodossa ha sempre considerato il matrimonio come indissolubile così come l’unione di Cristo e della Chiesa, Sua Sposa […]» (35).

 

3° - In un articolo sul divorzio, pubblicato nel 1968 nella Revista Eclesiastica Brasileira (Rivista Ecclesiastica Brasiliana) (36), Padre Eduardo Hoornaert, già in prima battuta scrive: «La riflessione cattolica sul matrimonio ha sempre ripetuto l’affermazione fondamentale e di base che il sacramento del matrimonio è indissolubile. Questa affermazione è fondata sulla legittima interpretazione della Rivelazione, la cui espressione più chiara si trova nel famoso testo di Matteo (Mt. XIX, 1-12)»(37). Ma, nelle pagine seguenti, l’autore dichiara che gli Apostoli ed i loro successori non hanno interpretato in maniera esatta il messaggio evangelico sull’indissolubilità del matrimonio(38), e sostiene, che ai giorni nostri, l’interpretazione errata di questo messaggio ha raggiunto il suo punto culminante(39); egli insinua che i protestanti non hanno affatto torto nei loro attacchi contro la dottrina cattolica concernente il sacramento del matrimonio(40), e termina proponendo «una revisione della disciplina rigorista» relativa al matrimonio, poiché le persone sono «ancora incapaci di vivere in funzione delle esigenze evangeliche»(41). Come si può notare, o questa posizione di Padre Hoonaert è il frutto di un cinismo perfetto, oppure essa non è che un errore grossolano. In tutti i modi, l’autore di queste affermazioni è caduto in flagrante contraddizione.

 

D) CONCLUSIONE

 

Alla luce di quanto si è detto, si comprenderà che la presenza di passi ortodossi nell’«Institutio» non può essere addotta come ragione sufficiente per dispensarlo da ogni censura. Al contrario, il fatto che vi si trovino giustapposte alcune dottrine contrarie, accresce la gravità della critica che dev’essere fatta a questo documento (42).

 

CAPITOLO TERZO

 

IL NUOVO TESTO DELLA MESSA E LE NUOVE RUBRICHE NELL’«ORDO» DEL 1969

 

Come abbiamo già annotato (1), in questo capitolo studieremo il nuovo «Ordo missæ», e cioè il nuovo testo della messa e le rubriche che l’accompagnano. Inoltre, analizzeremo alcune disposizioni dell’«Institutio Generalis Missalis Romani» che costituiscono le vere rubriche, benché esse non siano presentate con questa denominazione (2). Molte traduzioni del nuovo «Ordo» in lingua volgare sono caratterizzate da numerose infedeltà, molte delle quali vanno ad intaccare il dogma. Per questa ragione, alcuni giudicano che solamente queste versioni siano inaccettabili, e non l’originale latino. Questo modo di pensare non ci sembra fondato. Ciò premesso, nel presente capitolo non studieremo che il testo latino del nuovo ordinario della messa (3), riservando al capitolo seguente qualche osservazione sulle traduzioni (4).

 

A) PREGHIERE SOPPRESSE E ALTERATE

 

Nell’«Ordo» di San Pio V, il Confiteor iniziale è recitato in primo luogo dal sacerdote ed in seguito dall’accolito a nome dei fedeli. Questa distinzione denota chiaramente la differenza che esiste tra il celebrante ed i fedeli. Nel nuovo «Ordo», il Confiteor è recitato simultaneamente dal sacerdote e dall’assistente. Tale modifica tende ad insinuare un’identità tra il sacerdozio del celebrante e quello dei fedeli. L’assoluzione data dal sacerdote alla fine del Confiteor (5) è stata soppressa, altra innovazione che contribuisce a rendere meno precisa la distinzione tra il sacerdozio gerarchico e la condizione di semplice fedele (6). Nel nuovo «Ordo», molte preghiere della messa tradizionale che mettono in rilievo le nozioni di umiltà, di contrizione per i peccati, di propiziazione e l’idea che senza la grazia non ci può essere perseveranza nella virtù, non compaiono più. Allo stesso modo, oltre all’assoluzione a cui abbiamo appena accennato, sono scomparse le invocazioni che la seguono (7), la preghiera Aufer a nobis (8), che il sacerdote dice baciando l’altare (9), una parte della preghiera Munda cor meum (10), quasi tutto l’offertorio (11), una parte della preghiera Perceptio corporis tui, che precede la Comunione (12), due preghiere dopo la Comunione: Quod ore sumpsimus (13) e Corpus tuum, Domine (14); lo stesso dicasi per la supplica Placeat tibi, che termina il sacrificio (15). Forse, la soppressione di queste preghiere non contribuirebbe ad attenuare le espressioni di umiltà, di contrizione e di propiziazione, se esse fossero state sostituite da altre che manifestano le stesse disposizioni di animo, o se fossero stati aggiunti nuovi e più numerosi segni di pentimento e di adorazione come le genuflessioni, le prosternazioni, ecc…, o se l’«Institutio» avesse fornito valide spiegazioni per giustificare queste soppressioni, il che avrebbe dissipato tutti i timori possibili. Ma niente di tutto questo è stato fatto. Al contrario, queste magnifiche preghiere non sono state sostituite da altre per esprimere le stesse idee; quasi titte le genuflessioni, inchini e baci all’altare, ecc…, sono stati eliminati. Non solo l’«Institutio» non da ragionivalide che giustifichino ciò ch’è stato fatto, ma giunge ad omettere ancora l’idea di propiziazione, ecc… (16). Ne deriva che la soppressione di questo gruppo di preghiere diminuisce nella liturgia - e quindi anche nella vita cristiana - le espressioni di umiltà, di compunzione per i peccati commessi, di necessità della grazia al fine di perseverare nella virtù. Di conseguenza essa affievolisce, o almeno mette in ombra, il carattere propiziatorio della messa. Tutto ciò, evidentemente, non è in accordo con la dottrina cattolica, ma ricorda i modi di pensare e d’agire in uso presso i circoli protestanti e modernisti. In numerosi punti (17), è scomparsa ogni allusione alla SS.ma Trinità, il che tende ad affievolire la fede nel mistero principale della Rivelazione (18). Nel Kyrie tradizionale, ogni Persona della SS.ma Trinità viene invocata per tre volte. Si afferma così con particolare insistenza il carattere trinitario delle rivelazioni divine. Nel Kyrie del nuovo «Ordo» questa affermazione è stata indebolita, poiché ogni Persona non viene invocata che per due volte (19).

 

B) IL NUOVO CONCETTO DI OFFERTORIO

 

L’offertorio di San Pio V, che nelle sue caratteristiche specifiche ha sempre costituito uno dei principali elementi per distinguere la messa cattolica dalla cena protestante, è stato abolito (20). Vediamo ora esattamente in cosa consiste la soppressione ch’è stata fatta. La vera oblazione sacrificale che si fa nella messa, non è nell’offertorio, ma nell’offerta di Sé medesimo che Gesù Cristo fa alla SS.ma Trinità al momento della Consacrazione. Nel sacrificio della messa, la vera vittima non sono il pane ed il vino, né il fedele presente, ma Gesù Cristo stesso. Ma allora perché l’offertorio? Compiendo un sacrificio, noi offriamo a Dio una vittima al nostro posto, come simbolo del dono di noi stessi a Dio. Questo è l’elemento fondamentale di ogni sacrificio. Nella messa, è Gesù Cristo stesso che s’immola per noi. Unendoci a Lui, dobbiamo dunque offrirLo al nostro posto ed offrirci con Lui. Tuttavia, l’oblazione che Nostro Signore fa di Sé stesso non è visibile, poiché Egli non si mostra in modo percepibile ai nostri sensi. Dunque, è necessario che, attraverso qualche elemento percettibile, siano espressi prima della Consacrazione, sia la natura del sacrificio che si sta compiendo, che le diverse oblazioni che saranno compiute. Questo è l’oggetto stesso dell’offertoro romano. Per conseguenza, nel corso di quest’ultimo, si dichiara in cosa consista l’oblazione sacrificale propriamente detta, ed in cosa l’offerta di noi stessi a Dio. Il fine propiziatorio della messa è ugualmente affermato. Cerchiamo ora di evidenziare questi tre elementi che, costituendo le caratteristiche fondamentali dell’offertorio romano, distinguono inoltre la messa cattolica dalla cena protestante senza ombra di dubbio.

 

1° - L’oblazione di Nostro Signore ha luogo realmente al momento della Consacrazione; tuttavia, affinché la natura del sacrificio sia manifesta fin dall’inizio, nell’offertorio del messale romano vi è un insieme di preghiere che fanno conoscere chi sarà la vera Vittima, ed in anticipo, offrono questa stessa Vittima alla SS.ma Trinità.

2° - L’oblazione di noi stessi a Dio, tramite Gesù Cristo, è simbolizzata dall’offerta del pane e del vino. Secondariamente, essa è anche simbolizzata dall’eventuale offerta di altri beni materiali. Da notare che tale simbolismo non diventa effettivo che allorché il pane ed il vino, al momento di essere messi sull’altare, non sono solamente presentati a Dio, ma sono veramente offerti in spirito sacrificale. In altre parole, i summenzionati doni sono consacrati a Dio(21).

3° - L’offertorio romano, come altre numerose preghiere, evidenzia il carattere propiziatorio della messa. Non illustreremo qui quest’aspetto della messa, che abbiamo già precedentemente esaminato (22).




Questi tre elementi sono scomparsi dal nuovo offertorio, e rimpiazzati da una semplice «preparazione delle offerte» o «presentazione dei doni», che corrisponde ad un concetto dell’offertorio fondamentalmente diverso da quello di San Pio V. Inoltre, molte altre espressioni che distinguono la dottrina cattolica dal protestantesimo, sono state soppresse o attenuate. L’allusione alla caduta dei nostri progenitori è stata eliminata. Le invocazioni alla Madonna, agli Angeli ed ai Santi, sono scomparse. Il principio secondo cui il sacrificio dev’essere accettato da Dio perché Gli è gradito, è diventato piuttosto oscuro. Le manifestazioni di compunzione per i nostri peccati, e d’umiltà, sono state affievolite, e lo stesso è accaduto per l’affermazione del sacerdozio gerarchico del celebrante. Inoltre, non c’è più nessun riferimento esplicito ai fedeli defunti. Tutto ciò risulta più che evidente se l’offertorio di San Pio V e quello del nuovo «Ordo» sono messi a confronto:

 

1° La preghiera Suscipe Sancte Pater, tradizionalmente recitata dal sacerdote nel corso dell’offerta del pane, non compare più nella nuova messa: «Accetta, o Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno, quest’Ostia immacolata che io indegno Tuo servo offro a Te, Dio mio, vivo e vero, per le mie innumerevoli colpe, offese e negligenze, a favore di tutti quelli che sono presenti, come pure a favore di tutti i fedeli cristiani viventi e defunti, affinché a me e ad essi giovi a salvezza per la vita eterna. Amen.». Da notare che il sacerdote offre l’Ostia per il popolo, con una affermazione chiara della sua funzione gerarchica. Egli La offre per tutti i fedeli vivi e morti, contraddicendo così il principio protestante secondo cui i frutti della messa non sono applicabili né agli assenti, né ai defunti. Tutta questa preghiera, nei suoi termini e nel suo stile pieno d’unzione, parla del valore propiziatorio del sacrificio. Anche Lutero soppresse questa preghiera nella sua messa (23). Vi è un punto che merita una speciale attenzione: il celebrante offre a Dio «questa Ostia immacolata». La parola «Ostia», che può anche indicare il pane, significa più propriamente «vittima», e l’aggettivo «immacolata» non viene tanto applicato al pane, quanto a Gesù Cristo, l’unica vera «Ostia immacolata». Tutto ciò è abominevole agli occhi dei protestanti. Come afferma con disprezzo il pastore luterano L. Reed, «la parte centrale dell’offertorio Suscipe Sancte Pater è un’espressione perfetta della dottrina romana del sacrificio della messa» (25). I protestanti hanno anche un orrore particolare dell’offerta anticipata di Nostro Signore, realizzata da questa preghiera: L. Reed dichiara che si tratta dell’«anticipazione della Consacrazione» e del «miracolo della messa» (26).

2° Nel nuovo «Ordo», non compare più la preghiera del messale romano Offerimus Tibi Domine, mediante la quale si offre il vino: «Ti offriamo, o Signore, questo calice di salute e scongiuriamo la Tua clemenza perché esso salga con odore soavissimo al cospetto della Tua Maestà divina, a salvezza nostra e del mondo intero. Amen.». Come già per l’offerta del pane, questa preghiera costituisce un’anticipazione, poiché il «calice di salute», nel suo senso più appropriato, è quello che contiene il Sangue di Nostro Signore. Anche qui s’incontra la nozione di soddisfazione per i peccati, espressa prima di tutto con un’umile supplica, affinché la divina Maestà Si degni di accettare il sacrificio. Si deve dunque supporre che le ragioni che hanno portato alla soppressione di questa magnifica preghiera, sono le stesse che hanno ispirato l’eliminazione del Suscipe Sancte Pater.

3° Le due preghiere dell’offerta del pane e del vino sono state sostituite dalle seguenti: «Benedetto sei Tu Signore, Dio dell’universo; dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a Te perché diventi per noi Cibo di vita eterna». L’offerta del vino: «Benedetto sei Tu Signore, Dio dell’universo; dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a Te perché diventi per noi Bevanda di salvezza». Notiamo che in queste preghiere non c’è più alcun riferimento alla vera Vittima, Gesù Cristo, all’offerta dei doni per noi e per i nostri peccati; al carattere propiziatorio dell’oblazione; al sacerdozio gerarchico del celebrante; al principio per cui il sacrificio dev’essere accettato da Dio affinché Gli sia gradito. Al contrario, le espressioni «perché diventi per noi Cibo di vita eterna» e «perché diventi per noi Bevanda di salvezza», insinuano che il vero scopo della messa è il nostro nutrimento spirituale, tesi che, come abbiamo già notato (27), si riaccosta ad una delle eresie condannate dal Concilio di Trento. In questo modo, queste nuove preghiere modificano sostanzialmente il senso esatto dell’offerta del pane e del vino. I redattori della B.A.C. (28) spiegano questo profondo cambiamento nel concetto di offertorio nella maniera seguente: «Non è solamente il testo ad essere nuovo, ma anche il suo senso. Si tratta di una preghiera di benedizione, in un’esclamazione di gioia in presenza del simbolo, di una benedizione che sale al cospetto di Dio per lodarLo. Perché lodiamo Dio in questo momento? Per la creazione del pane. NOI NON DOMANDIAMO A DIO DI BENEDIRE IL PANE. Il pane che riceviamo dalla generosità di Dio è la vera benedizione che scende, perché ci comunica forza, vita ed energia. La benedizione (grazia, vita e fecondità)(29) che viene da Dio, noi Gliela restituiamo, nel senso e nella misura in cui, lodando, riconosciamo che essa viene da Dio […]».

«Avvalendoci degli innumerevoli testi biblici che chiamano Dio «benedetto» per le meraviglie che Egli ha fatto, ed uniti a questi testi, noi Lo lodiamo al momento della presentazione del pane che, mediante la preghiera consacratoria, diverrà il «Pane della vita». NON OFFRIAMO IL PANE A DIO, ma lo benediciamo per il pane. A Dio, noi offriamo il Corpo ed il Sangue di Cristo, il pane eucaristico»(30). Le affermazioni finali di questo testo, secondo cui non offriamo il pane a Dio, meritano di essere sottolineate. Senza alcun dubbio, l’oblazione sacrificale, che costituisce l’essenza stessa della messa, è quella che Gesù Cristo fa di sé stesso, ma anche noi ci offriamo a Dio in unione con Nostro Signore; secondo la dottrina comune, il pane è offerto a Dio in quanto espressione dell’oblazione del sacerdote, dei fedeli presenti ed assenti, ed in una parola, di tutta la Chiesa. Per questo motivo, negare l’offerta del pane significa negare l’offerta a Dio di noi stessi, delle nostre buone opere e delle nostre penitenze; significa anche negare che gli altri fedeli, presenti ed assenti, e tutta la Chiesa si offrono a Dio Padre in ogni messa, in uno spirito propiziatorio e sacrificale. Questo punto richiede una piccola spiegazione, oltre a quello che è già stato detto precedentemente (31). Anche alcuni protestanti riconoscono il carattere propiziatorio del sacrificio della Croce, e cioè riconoscono che Gesù è morto per i nostri peccati. Il loro errore sta nella maniera in cui i meriti di Cristo ci vengono applicati. Essi dicono che solo la fede salva, e cioè che le nostre buone opere ed i nostri sacrifici non sono necessari in unione con il sacrificio redentore di Cristo. Secondo la dottrina cattolica, noi dobbiamo - in una certa misura - completare nella nostra carne ciò ch’è mancato ai patimenti di Nostro Signore (Coloss. I, 24). Tramite le nostre buone opere e le nostre mortificazioni compiute con l’aiuto della grazia, dobbiamo applicarci, così come a tutti gli altri uomini ed ai fedeli defunti, i meriti di Cristo. Quindi, dobbiamo offrirci a Dio. Ma questa offerta di noi stessi, delle nostre buone opere e delle nostre penitenze non ha alcun significato se non è realizzata in unione con il sacrificio redentore della Croce, poiché solo la morte di Cristo costituisce un’equa giustificazione per i nostri peccati. D’altra parte, Dio ha voluto che l’applicazione agli uomini dei meriti del sacrificio del Calvario sia fatta attraverso le messe celebrate nel mondo intero fino alla fine dei tempi (32). Essendo il rinnovamento incruento del sacrificio della Croce, la messa è anche propiziatoria nella misura in cui Nostro Signore, realmente presente come Vittima, si offre nuovamente a Dio Padre. In questo senso, i meriti e le soddisfazioni sono applicati, secondo i disegni della Provvidenza, a coloro per cui la messa è offerta. In definitiva, le nostre buone opere e le nostre penitenze debbono essere quotidianamente offerte a Dio Padre, in unione con tutte le messe che sono celebrate in quel dato giorno, e specialmente con quella che abbiamo fatto dire secondo le nostre intenzioni, o con quella a cui assistiamo. Come abbiamo già osservato (33), questa unione dei fedeli con Cristo, che si offre a Dio Padre in ogni messa, è simbolizzata dal pane e dal vino offerti sull’altare. Per questa ragione, tale offerta ha un carattere d’oblazione e di sacrificio. Non è solamente una «presentazione dei doni», ma anche un’oblazione fatta in uno spirito propiziatorio, benché la vera Vittima del sacrificio della messa sia Nostro Signore, e non il pane ed il vino. Negare che offriamo veramente a Dio il pane ed il vino, come espressione sensibile e sacrificatoria dell’offerta di noi stessi, delle nostre buone opere e delle nostre penitenze, conduce a negare che il sacrificio di Cristo ha bisogno, in un certo senso, di essere completato da noi. Questo errore segna anche una tappa molto avanzata verso la negazione del carattere propiziatorio della messa, poiché se il sacrificio della Croce non ha bisogno di essere completato dai nostri, non si vede come giustificare il rinnovamento quotidiano del sacrificio propiziatorio del Calvario. L’affermazione secondo cui «noi offriamo il pane a Dio» appare solamente nel commentario della B.A.C., e non nel testo del nuovo «Ordo missæ». Tuttavia, gli autori della B.A.C. non fanno qui che accentuare la tendenza che è implicitamente presente nella nuova messa. In effetti, conformemente a ciò che abbiamo già evidenziato (34), tutte le espressioni propiziatorie sono state eliminate dal nuovo offertorio; il suo titolo diventa «preparazione delle offerte» (35), e soprattutto, le nuove preghiere dell’offerta del pane e del vino, che stiamo analizzando, insinuano che esso non è che una semplice presentazione delle offerte (36), e non un’offerta propiziatoria.

Inoltre, l’impiego che l’«Institutio» e l’«Ordo» fanno di termini come «offerre» (offrire), «oblata» (offerte), ecc…, non invalida l’osservazione fatta dai redattori della B.A.C.. Visti nel contesto, questi termini hanno realmente un senso che non esclude l’interpretazione secondo cui «noi offriamo il pane a Dio». D’altra parte, abbiamo già sottolineato (37) il significato equivoco dele espressioni finali delle due nuove preghiere d’offerta del pane e del vino: «perché diventi per noi Cibo di vita eterna» e «perché diventi per noi Bevanda di salvezza». A questo proposito, i redattori della B.A.C. scrivono: «Osservate che l’«Ordo missæ» ha cambiato il senso di questo rito, in quanto si è passati dall’offertorio considerato in senso diretto, ad una semplice presentazione e collocazione sull’altare dei doni che diverranno «Pane di vita e Bevanda di salvezza»(38).

4° Nell’offertorio tradizionale, prima di mescolare l’acqua al vino, la benedice recitando la preghiera Deu qui humanæ substantiæ. Nell’«Ordo» del 1969, questa benedizione scompare e dalla summenzionata preghiera sono eliminate le espressioni che qui mettiamo tra parentesi: «(O Dio, che in modo ammirabile creasti la natura dell’uomo e più mirabilmente ancora l’hai riformata, concedici di diventare, mediante il mistero di questa) [l’] acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana, (Gesù Cristo, Tuo Figlio, Nostro Signore, che vive e regna, Dio, con Te, nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen).» Oltre all’eliminazione della benedizione dell’acqua e dell’allusione della SS.ma Trinità, occorre notare che il riferimento alla Redenzione, finalità essenziale dell’Incarnazione, è scomparsa. Ecco un’altra modifica che tende ad indebolire il dogma, rendendo la nuova messa accettabile anche per i non-cattolici.

5° È stata conservata la seguente preghiera: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: Ti sia gradito il sacrificio che oggi si compie dinanzi a Te». Le parole «umili» e «pentiti», improntati al profeta Daniele (III, 39), non sono sufficienti per esprimere i principi cattolici del perdono dei peccati, principi che ci differenziano dai protestanti (40). Il termine «sacrificio» appare qui in un contesto dove non è chiaro se si tratti di un sacrificio propiziatorio.

6° Ecco un’altra preghiera eliminata: «Vieni, Dio eterno, onnipotente santificatore, e benedici questo sacrificio preparato in onore del Tuo Nome santo». Si noti che la richiesta a Dio di «benedire questo sacrificio» non sembra affatto accordarsi con l’idea che «noi non domandiamo la benedizione di Dio sul pane», idea che, secondo i redattori della B.A.C. (41), presiede alla preparazione del nuovo offertorio.

7° Sono state eliminate tutte le preghiere che, nell’«Ordo» di San Pio V, accompagnano l’incensazione delle offerte e dell’altare. Così, il sacerdote non benedice più l’incenso, come non invoca più San Michele Arcangelo e tutti gli eletti e non offre più l’incenso a Dio, ecc…

8° Al Lavabo, i versetti del salmo XXV sono stati sostituiti dalla seguente invocazione del salmo L: «Lavami, Signore, da ogni colpa; purificami da ogni peccato». Presa isolatamente, questa modifica non sembra avere conseguenze dottrinali; tuttavia, essa costituisce un ulteriore passo per rompere con la tradizione liturgica plurisecolare(42).

9° La preghiera alla SS.ma Trinità è stata eliminata: «Accetta, Santissima Trinità, questa offerta che facciamo in memoria della Passione, della Resurrezione e Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, e in onore della Beata sempre Vergine Maria, del Beato Giovanni Battista, e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, di questi e di tutti gli altri Santi, affinché ad essi sia onore e a noi salvezza, ed essi si degnino di intercedere per noi in cielo, mentre noi ne celebriamo la memoria in terra. Per i meriti del medesimo Gesù Cristo Nostro Signore. Amen». Questa preghiera insiste sul fatto che il sacrificio della messa è offerto alla SS.ma Trinità. Se, oltre alla sua eliminazione consideriamo lagià indicata riduzione del numero d’invocazioni alla SS.ma Trinità (43), possiamo realmente temere che il nuovo «Ordo» conduce ad una diminuzione della fede nel principale dogma cattolico. Inoltre, osserviamo che anche la preghiera d’intercessione alla Madonna e a tutti i Santi è stata soppressa.

10° Il nuovo offertorio ha conservato l’Orate, fratres: «Pregate fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre Onnipotente». «R./ Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del Suo nome, per il bene nostro e di tutta la Sua Santa Chiesa». Questa preghiera parla del sacrificio, ma non dice in nessuna parte che si tratta di un sacrificio propiziatorio (44). Un’allusione alla funzione sacerdotale del celebrante viene espressa nella distinzione tra il «mio» ed il «vostro»; per questa ragione, noi diciamo (45) che il nuovo offertorio indebolisce l’affermazione di questo principio dottrinale sopprimendo la preghiera Suscipe Sancte Pater (46), ma non l’ha completamente eliminata. Lo stesso è avvenuto per il principio di accettazione da parte di Dio del sacrificio, affinché Gli sia gradito: le richieste in questo senso sono state eliminate da numerose preghiere (47), ma sono rimaste nella preghiera In spiritu humilitatis (48) e nell’Orate, fratres: «Ti sia gradito…», «Il Signore riceva …».

 

C) LA PRIMA PREGHIERA EUCARISTICA O CANONE ROMANO

 

Nel nuovo ordinario della messa, ci sono quattro «preghiere eucaristiche», a scelta del sacerdote secondo le regole esposte nell’«Institutio» al N° 322. La prima preghiera eucaristica o canone romano, può essere sempre utilizzata. Considerato superficialmente, il canone romano non sembra aver subito modifiche significative. Tuttavia, un’analisi più attenta rivela che i cambiamenti introdotti tendono in generale - e talvolta in modo sottile - ad introdurre nel testo la concezione di Eucarestia intesa come semplici agapi compiute dalla comunità, sotto la presidenza del celebrante, in commemorazione della Passione e della Resurrezione di Nostro Signore. Come vedremo tra breve, è assai difficile definire «romano» questo canone.




Nella messa di San Pio V, esiste una chiara separazione tipografica tra la parte narrativa della consacrazione e le parole che realizzano la transustanziazione. Per indicare in maniera indubitabile che queste ultime sono dette affermativamente, in persona Christi, e non come una semplice narrazione, il periodo primitivo si chiude con un punto. In questo modo, diviene chiaro che in quel momento il sacerdote comincia a parlare a nome di Nostro Signore. Inoltre, le espressioni che racchiudono le parole della Consacrazione sono stampate a caratteri grandi. Nel nuovo «Ordo», il periodo che precede le parole della Consacrazione termina con i due punti, e benché i caratteri grandi siano stati conservati nelle parole della Consacrazione propriamente detta, altre nuove frasi sono state aggiunte, in modo tale che numerose parole non essenziali alla transustanziazione appaiono scritte a grandi lettere. Evidentemente, si tratta di un ulteriore passo che conduce facilmente all’idea che la Consacrazione non sia nient’altro che una narrazione storica dell’istituzione dell’Eucarestia (49). Affinché il lettore possa distinguere le modifiche d’ordine tipografico introdotte nella Consacrazione, riproduciamo qui sotto il testo tradizionale ed il nuovo testo (50).

 

TESTO DI SAN PIO V

 

«Il quale, il giorno prima di patire, prese il pane nelle Sue sante e venerabili mani e, sollevati gli occhi in cielo a Te Dio, Suo Padre onnipotente, ringraziandoTi, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai Suoi discepoli dicendo: prendete e mangiatene tutti:

POICHÉ QUESTO È IL MIO CORPO.

Ed in modo simile, dopo aver cenato, prendendo nelle Sue sante e venerabili mani anche questo prezioso calice, di nuovo ringraziandoTi, lo benedisse lo diede ai Suoi discepoli dicendo: prendete e bevetene tutti:

POICHÉ QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE, DELLA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA: MISTERO DELLA FEDE: CHE PER VOI E PER MOLTI SARÀ SPARSO PER LA REMISSIONE DEI PECCATI.

Ogni qualvolta farete questo, lo farete in memoria di Me.»

 

TESTO DEL NUOVO «ORDO»

 

«La vigilia della Sua passione, Egli prese il pane nelle Sue mani sante e venerabili, e alzando gli al cielo a Te Dio Padre onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse:

PRENDETE E MANGIATENE TUTTI: QUESTO È IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.

Dopo la cena, allo stesso modo, prese questo glorioso calice nelle Sue mani sante e venerabili, Ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai Suoi discepoli, e disse:

PRENDETE E BEVETENE TUTTI: QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE DELLA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI. FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.

Come si può osservare, l’esclamazione che segue la Consacrazione del vino è stata sostituita. Notate come il nuovo testo, «fate questo in memoria di Me», è meno distante dell’idea che la messa non è che una semplice commemorazione, più di quanto lo fosse il testo originale: «ogni qualvolta farete questo, lo farete in memoria di Me». Bisogna sottolineare che il nuovo testo della Consacrazione - risultato dalle modifiche appena accennate - non è in sé stesso inaccettabile. Per esempio, in qualche liturgia cattolica orientale si incontra la stessa punteggiatura adottata dal nuovo «Ordo», e l’espressione «offerto in sacrificio per voi» annessa alla Consacrazione del pane. Ciò che dev’essere considerato con riserva, è il fatto che tutte queste alterazioni tendono a riavvicinare il canone romano al nuovo concetto della messa espresso nell’«Institutio». In altri termini, i nuovi testi del canone chiamato romano, benché in sé stessi siano accettabili, sono tuttavia meno chiari di quelli antichi, ed il fatto che la parte centrale della messa sia meno distante dal protestantesimo, tende a creare confusioni inammissibili ed estremamente dannose per la fede.




Allo stesso tempo, nel canone detto romano, sono stati soppressi ventiquattro segni di Croce fatti dal celebrante (51); gli inchini di riverenza sono stati ridotti da cinque a tre e le genuflessioni da sei a due. I due baci dell’altare sono stati soppressi; tutte modifiche che, in sé stesse, tendono ad affievolire la natura sacrale della messa, con le conseguenti ripercussioni sulla fede nella presenza reale, nel carattere di sacrificio della messa e nella trascendenza di Dio.




Introducendo il racconto della Cena, il nuovo «Ordo» presenta questa rubrica: «Nelle formule seguenti, le parole del Signore saranno pronunciate in maniera chiara e comprensibile, come lo esige la loro natura» (52). Questa prescrizione, ch’è anche valida per le parole della Consacrazione propriamente detta, ci appare estremamente grave:

1° da una parte, perché essa rende la messa cattolica simile alle cene di Zuiglio (53) e Lutero (54);

2° dall’altra, perché la rubrica in questione non determina solamente che la parte centrale della messa sia letta ad alta voce, ma essa aggiunge che la natura stessa delle parole lo esige. Senonché, quest’ultima asserzione è già stata condannata dalla Chiesa, come abbiamo indicato trattando di una disposizione simile al N° 12 dell’«Institutio» (55). In questa rubrica, non si può dire che la congiunzione pronti (come) sia impiegata in un senso semplicemente proporzionale, e cioè indicante unicamente che le parole che seguono devono essere pronunciate ad alta voce «nella misura in cui» la natura di ciascuna di esse lo esige. Tale interpretazione, oltre al fatto che violerebbe il contesto e sopprimerebbe tutte le ragioni d’essere della rubrica stessa, è formalmente smentita dallo stesso N° 12 dell’«Institutio».




L’invocazione alla maggior parte degli Apostoli e dei Martiri, i cui nomi figurano nella messa tradizionale, è divenuta facoltativa (56).




Il riferimento alla mediazione di Gesù Cristo tra noi e Dio Padre nella stessa messa, ha ugualmente cessato di essere obbligatorio in molte preghiere (57). Questa modifica contribuisce a riavvicinare la messa alla liturgia dei protestanti. Effettivamente, secondo questi, la messa non è un vero sacrificio propiziatorio, né un autentico rinnovamento dell’immolazione sulla Croce di Nostro Signore, ma una semplice agape commemorativa dell’ultima Cena. In questa concezione eretica, l’accettazione chiesta a Dio Padre per ogni messa non sarebbe più necessaria. Si potrebbe senza dubbio domandare a Dio che accetti questo banchetto commemorativo, ma una tale accettazione non richiederebbe la mediazione sacrificale di Nostro Signore, per cui non ci sarebbe più ragione per conservare la particolare insistenza con cui il messale romano afferma che le preghiere del sacerdote salgono all’Eterno Padre «per Gesù Cristo Nostro Signore».




Secondo il nuovo «Ordo», immediatamente dopo la Consacrazione, il popolo deve fare un’acclamazione, per la quale sono proposti tre testi. Due di essi terminano con l’espressione «nell’attesa della Tua venuta»: «Annunciamo la Tua morte, Signore, proclamiamo la Tua risurrezione, nell’attesa della Tua venuta». «Ogni volta che mangiamo di questo Pane e beviamo a questo calice, annunciamo la Tua morte, Signore, nell’attesa della tua venuta». Indubitabilmente, l’espressione «nell’attesa della Tua venuta» è di San Paolo (l Cor. XI, 26) e dunque non può essere censurata. In questa prima lettera ai Corinti, essa indica l’attesa della seconda venuta di Gesù. Tuttavia, messa immediatamente dopo la Consacrazione, allorché Nostro Signore è appena venuto sostanzialmente sull’altare, essa può lasciar credere che Egli non è presente, che non è venuto personalmente sotto le specie eucaristiche. Tale innovazione, in tempi in cui negli ambienti cattolici grava una preoccupante tendenza a negare la presenza reale, ha per conseguenza inevitabile di favorire la diminuzione di fede nella transustanziazione.

 

                 

 

D) LE NUOVE PREGHIERE EUCARISTICHE

 

Se si confronta con l’«Ordo» tradizionale (58), una delle principali novità dell’«Ordo» del 1969, è l’aggiunta al canone romano di tre nuove preghiere eucaristiche. Per questa ragione, un vero «canone» ha cessato di esistere nella messa, e cioè una regola esclusiva secondo la quale si deve celebrare il sacrificio, in modo che la nuova liturgia chiama tutte queste preghiere - canone romano incluso - «preghiere eucaristiche» (59). Ora, indicheremo alcune delle principali caratteristiche delle tre nuove preghiere eucaristiche.




Nel canone tradizionale, la Consacrazione del pane è preceduta da queste parole: «Il quale, prima di patire, prese il pane nelle Sue sante è venerabili mani e, sollevati gli occhi in cielo a Te Dio, Suo Padre onnipotente, ringraziandoTi, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai Suoi discepoli dicendo: Prendete e mangiatene tutti.» Nel nuovo canone romano questo testo, seppure con le già accennate modifiche di punteggiatura e di presentazione tipografica (60), è stato conservato. Nelle tre nuove preghiere eucaristiche, questo testo ha subito alterazioni profonde e significative. Alcune espressioni che nel testo di San Pio V mettono in rilievo il carattere sacrosanto dell’atto che si sta compiendo sono state eliminate. Così, ad esempio, vi si dice solamente che Nostro Signore prese il pane senza menzione alle Sue mani consacrate. L’espressione «sollevati gli occhi in cielo» è stata omessa. Il riferimento d’amore a Dio Padre «a Te Dio, Suo Padre onnipotente» è stato soppresso nella seconda preghiera eucaristica, sostituito da un laconico «a Voi» nella terza e da «a Voi Padre Santo» nella quarta.




In generale, le parole del canone romano tradizionale che precedono immediatamente la Consacrazione del vino, sono state conservate. Sono state tuttavia introdotte importanti modifiche. Oltre ai suaccennati cambiamenti di punteggiatura e presentazione tipografica, e oltre alla soppressione delle parole «nelle Sue sante e venerabili mani», l’espressione «questo prezioso calice» è stata semplicemente ridotta a «il calice». Queste innovazione è molto più importante di quanto non sembri. Da una parte, l’eliminazione dell’aggettivo «prezioso» (præclarus) costituisce un ulteriore passo verso la desacralizzazione. Dall’altra, è particolarmente grave il fatto che, «questo» calice d’ora in poi non è che «il calice», e ciò favorisce la teoria secondo cui il sacerdote non agisce in persona Christi, e cioè in veste di rappresentante di Nostro Signore. Ciò richiede una spiegazione. Come abbiamo già visto, l’«Institutio» non è sufficientemente esplicita circa il principio secondo cui il sacerdote pronuncia le parole della Consacrazione in persona Christi (61). Ora, nel testo che esaminiamo, la messa tradizionale ricorre ancora una volta ad un simbolo per indicare che le parole della transustanziazione sono pronunciate a nome di Nostro Signore: il calice che il sacerdote ha dinanzi a sé è considerato come lo stesso sacratissimo calice nel quale Gesù Cristo convertì per la prima volta il vino nel Suo Preziosissimo sangue. L’eliminazione di questo simbolo così forte, così ricco e così stupefacente, costituisce ancora una volta un passo concreto verso l’affievolimento della fede nel principio secondo cui Nostro Signore, principale sacerdos di tutte le messe, è ministerialmente rappresentato dal sacerdote celebrante.




Nelle nuove preghiere eucaristiche, come nel nuovo canone detto romano, il numero dei segni di Croce fatti dal sacerdote è diminuito, così come lo è il numero di inchini, di riverenze e di genuflessioni. I baci dell’altare sono stati completamente eliminati.




Le rubriche esigono ugualmente che nelle preghiere eucaristiche le parole della Consacrazione siano dette ad alta voce, «come richiede la loro natura».




Nei nuovo testi, le invocazioni agli Apostoli ed ai Martiri, non sono più facoltative, ma scompaiono completamente. I riferimenti alla mediazione di Nostro Signore, pressoché tutti facoltativi nel nuovo canone romano (62), sono stati ulteriormente ridotti nelle tre nuove preghiere eucaristiche.




L’ultima di queste preghiere «contiene un riassunto di tutta la storia della salvezza», e la si deve utilizzare di preferenza «per quei gruppi di fedeli che hanno una conoscenza più profonda della Sacra Scrittura». Questo è ciò che afferma l’«Institutio» nel N° 322 d. Se analizziamo accuratamente questa preghiera, non possiamo esimerci dal pensare che un testo come questo non renda un giorno possibile delle celebrazioni ecumeniche con dei non-cattolici, specialmente con dei protestanti. Ciò premesso, si può temere che dei sacerdoti estremamente progressisti giudichino che «i fedeli che hanno una conoscenza più profonda della Sacra Scrittura», ai quali si riferisce l’«Institutio», siano proprio i protestanti! Analizziamo ora alcuni passaggi di questa preghiera eucaristica. Secondo le rubriche, non si può fare nessun memento per determinati defunti. L’«Institutio» fornisce stringatamente il motivo di questa starna disposizione nel suo N° 322 d: «A causa della sua struttura, in questa preghiera non è possibile inserire una formula speciale per dei defunti». Ci è difficile comprendere perché la «struttura» di una preghiera eucaristica non possa ammettere un’allusione speciale per alcuni determinati defunti. Concretamente, diciamo che questa rubrica rende il testo accettabile per i protestanti, i quali negano l’applicabilità della messa ai morti. Non si obietti che la quarta preghiera eucaristica contiene un riferimento generale ai defunti, sufficiente per distinguerla dalla cena protestante. Un riferimento così vago non sarebbe certamente rifiutato dai discepoli di Lutero, giacché se essi negano l’applicabilità dei frutti della messa ai fedeli defunti, non negano che possiamo ricordarci di loro nelle nostre preghiere (63). Infatti il riferimento ai morti, presente nella quarta preghiera eucaristica, è assai vago; esso sottolinea che non preghiamo solamente per i fedeli defunti. Ecco il testo: «Come si può notare, essa intercede per coloro che, benché non siano morti nella pace di Cristo, sono tuttavia stati salvati dalla loro fede», fede che solo Dio conosce. La formula può lasciare perplessi, poiché, pur essendo suscettibile di un’interpretazione ortodossa, essa tende a preservare la coscienza di coloro che non desiderano di appartenere alla Chiesa cattolica: forse essi hanno una «fede» sconosciuta agli uomini, ma conosciuta da Dio. La formula impiegata nella quarta preghiera eucaristica per intercedere in favore dei vivi non è certamente meno «ecumenica». Ecco un’altra formula che può essere interpretata in senso ortodosso, ma che è ambigua e pericolosa, poiché insinua, infatti, che una vaga e generica «sincerità», «cercando» Dio, è una condizione sufficiente di salvezza (64).




Per concludere: in linea generale, tutto ciò che nella prima preghiera eucaristica - preghiera che imita il canone romano tradizionale - suona male alle orecchie cattoliche, è ripreso e maggiormente accentuato anche nelle altre tre nuove preghiere eucaristiche. In altri termini, il nuovo canone detto romano non sarà probabilmente usato che da alcuni sacerdoti tradizionalisti a cui non piacciono le nuove preghiere eucaristiche recentemente composte. I sacerdoti progressisti celebreranno probabilmente facendo uso solo delle nuove preghiere eucaristiche, in modo tale che finiranno per soppiantare praticamente il canone detto romano, lasciandolo cadere in disuso. Inoltre, l’introduzione di nuove preghiere eucaristiche apre la strada ad altre innovazioni, e costituisce già in sé un attacco contro la tradizione, la quale considera il canone della messa come una norma inflessibile per l’atto sacratissimo del sacrificio da offrire.

 

E) IL RITO DELLA COMUNIONE

 

Nel rito della comunione, l’«Ordo» di San Pio V evidenzia assai chiaramente la distinzione tra il sacerdote ed il popolo.




Così, per esempio, il sacerdote si prepara alla comunione con delle preghiere personali, dette in prima persona singolare e distinte da quelle che precedono la comunione dei fedeli. Egli riceve Nostro Signore sotto le due specie, mentre i fedeli non si comunicano che con il pane. Mentre il sacerdote riceve il Sangue di Cristo, l’accolito recita il Confiteor, dopodiché il celebrante da l’assoluzione al popolo, attraverso un atto che esprime chiaramente la sua missione sacerdotale. E qui gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nell’«Ordo» del 1969, molti di questi segni che distinguono il celebrante dal popolo sono stati soppressi. Sono state introdotte nuove preghiere e nuovi riti che tendono a confondere il sacerdozio del celebrante con quello dei fedeli. I casi in cui si permette ai fedeli di comunicarsi sotto le due specie sono stati moltiplicati. Il Confiteor e l’assoluzione che precedono la comunione dei fedeli sono stati aboliti. Il numero di preghiere preparatorie alla comunione dette dal solo sacerdote, in prima persona singolare, sono state sostanzialmente diminuite, giacché, mentre nel messale romano tradizionale se ne contano nove, nel nuovo «Ordo» non ce ne sono più di quattro(65). In ogni messa, su queste quattro, il sacerdote non ne dice realmente che tre(66), e questo numero è ancora considerato eccessivo dai progressisti, che avrebbero desiderato rendere la posizione del sacerdote il più possibile identica a quella dei fedeli; a questo proposito(67) scrivono i redattori della B.A.C.: «In ciò che concerne le preghiere private del celebrante, bisogna ricordare che esse sono un retaggio della devozione del Medio Evo; in generale, considerata l’epoca in cui sono apparse, esse sono doppiamente decadenti. Per questa ragione, durante l’elaborazione della riforma, ci sono state forti pressioni, soprattutto da parte dei migliori liturgisti, per giungere ad una soppressione totale di queste preghiere private obbligatorie: noi crediamo che ciò sarebbe stato un progresso per la liturgia. In effetti, se per i fedeli non esistono preghiere private prescritte, perché il celebrante è limitato da formule fisse di preghiere private? Forse perché esso è considerato meno capace dei fedeli a prepararsi personalmente, per esempio alla comunione, che lo si vuole obbligare a recitare delle formule fisse?» (68). «Può darsi, ed è lecito sperare che con il progresso della preghiera liturgica, queste preghiere un giorno tenderanno a scomparire. Effettivamente - ed è questo uno degli aspetti migliori dell’«Institutio» e della riforma che ne è derivata - esse sono sensibilmente diminuite»(69).




La comunione del sacerdote non si effettua più con un rito proprio, diverso da quello dei fedeli, ma il sacerdote è piuttosto il primo di tutti a comunicarsi (70). Questa modifica conferma l’impressione data dal nuovo «Ordo» che il sacerdote non è nulla di più che il presidente dell’assemblea.




Il nuovo rito del bacio della pace, introdotto tra gli atti preparatori alla comunione, merita un’attenzione tutta speciale. Dice il sacerdote: «Scambiatevi un segno di pace» (71), e gli assistenti si salutano gli uni con gli altri stringendosi la mano, abbracciandosi o facendo un altro gesto di saluto a seconda della decisione delle Conferenze Episcopali, «in rapporto con le abitudini ed il carattere di ciascun popolo» (72). Inutile sottolineare come tale pratica, in un mondo come il nostro, sensuale e desacralizzato, possa portare con sé degli abusi. Da questo punto di vista, è impossibile confrontare «il rito della pace» introdotto dal nuovo «Ordo» con le cerimonie analoghe delle liturgie orientali e della Chiesa primitiva. Tuttavia, non è questo l’aspetto che noi vorremmo maggiormente sottolineare in questa innovazione, ma vogliamo soprattutto attirare l’attenzione del lettore sul fatto che il saluto stabilito dall’«Ordo» di Paolo VI non parte dal sacerdote, ma è ciascuno degli assistenti a darlo al suo vicino. Spiegano gli autori della B.A.C.: «Notate che, secondo la nuova rubrica, ciascuno da il bacio della pace al suo vicino, il quale glielo rende, senza attendere che esso parta dall’altare, come un tempo si usava. È stata così restaurata un’usanza più antica ed il tempo impiegato per questo tipo di saluto è stato notevolmente ridotto»(73). In un altro passo, gli stessi redattori della B.A.C. riconoscono che questo modo di procedere nasconde una ragione più profonda che quella di un puro arcaismo o un semplice desiderio di abbreviare i tempi: «Non è necessario né desiderabile che il saluto della pace venga dal celebrante, ma tutti i fedeli devono darselo vicendevolmente, ciascuno alla sua destra ed alla sua sinistra. La pace cristiana è un effetto dello Spirito Santo che risiede in ogni fedele» (74). Questa affermazione è molto grave. Indubbiamente, lo Spirito Santo dimora in tutte le anime in stato di grazia. Esso le conduce verso l’amore di Dio e del prossimo. Tuttavia, bisogna qui ricordarsi che si va alla messa per ricevere delle grazie speciali, non in virtù dell’azione comune dello Spirito Santo nelle anime, ma piuttosto in virtù del sacrificio di Cristo realmente rinnovato sull’altare mediante il ministero del sacerdote. Sostenendo che questo saluto non abbisogna di partire dal sacerdote perché lo Spirito Santo «è in tutti i fedeli», i redattori della B.A.C. insinuano ancora una volta che il sacerdozio del celebrante non è essenzialmente diverso da quello dei fedeli(75). Inoltre, la «pace» espressa nel nuovo rito non è chiaramente presentata come il risultato della riconciliazione tra il Cielo e la terra, prodotta dal sacrificio redentore di Gesù Cristo; piuttosto essa sembra venire dai fedeli, come il risultato di una semplice solidarietà fraterna ed umana che accomuna tutti gli assistenti.




Come abbiamo già evidenziato in un passo precedente, la parte della preghiera Perceptio Corporis tui, che contiene un atto d’umiltà(76), è stata soppressa. Inoltre le preghiere Quod ore sumpsimus(77) e Corpus tuum Domine, che esprimono molto bene le nozioni d’umiltà e di pentimento per i peccati, e che, senza la grazia, non ci può essere perseveranza nella virtù, sono state ugualmente soppresse(78). Sono state eliminate anche numerose invocazioni alla SS.ma Trinità(79), alcune genuflessioni(80), alcuni segni di Croce(81), dei baci di riverenza e degli inchini(82), così come lo è stato il riferimento alla Madonna ed ai Santi nella preghiera Libera nos, quæsumus(83).

 

F) ALTRE MODIFICHE NELLE RUBRICHE

 

Oltre alle modifiche che abbiamo già annotato, numerose alterazioni sono state introdotte nelle rubriche della messa. Senza alcuna pretesa di presentare uno studio completo, ne indicheremo ora alcune di esse (84).




Le genuflessioni, sia del sacerdote che dei fedeli, sono state pressoché tutte eliminate. Salvo che in alcuni casi particolari, come la presenza all’altare del SS.mo Sacramento, sono rimaste solamente tre genuflessioni del sacerdote (N°233) e una dei fedeli (N° 21). A proposito della genuflessione dei fedeli al momento della Consacrazione, l’«Institutio» dice: «Che essi [i fedeli] si inginocchino alla Consacrazione, se la mancanza di spazio o il grande numero di assistenti o altre cause ragionevoli non glielo impediscono» (N°21). L’enunciazione di queste ragioni restrittive, che il buon senso fa intendere e che sono più che superflue, non costituisce forse un invito ai fedeli a non inginocchiarsi nemmeno alla Consacrazione? È in questo senso, infatti, che gli autori della B.A.C. le interpretano, dicendo che secondo il loro punto di vista, il fatto che l’assemblea sia numerosa è sufficiente per sopprimere la genuflessione (85). Seguendo la stessa linea, l’opuscolo edito da Vosez (86) ad uso dei fedeli (brasiliani) per seguire la messa, il cui testo è stato preparato dal Segretariato nazionale della Liturgia della Conferenza episcopale del Brasile, indica puramente e semplicemente che alla Consacrazione i fedeli possono sia inginocchiarsi che rimanere in piedi (87). Dunque noi constatiamo che nel rito latino, le nuove rubriche eliminano pressoché totalmente le genuflessioni, quest’attitudine psichica così appropriata per dare risalto all’adorazione, all’umiltà, alla penitenza ed allo spirito di supplica (88)!




Innumerevoli prescrizioni, con cui la messa tradizionale circonda le specie eucaristiche, sono state soppresse. Ognuna di esse esprimeva il rispetto dovuto a Nostro Signore nel SS.mo Sacramento, alla più piccola particella consacrata che avrebbe potuto andare perduta o essere trattata inavvertitamente in modo indegno. Allo stesso modo non si procede più alla cerimonia della purificazione del luogo in cui è caduto un frammento d’Ostia («Institutio», N° 239). Dopo la comunione, le dita del sacerdote non devono più essere purificate nel calice, ma è sufficiente che: «se qualche frammento dell’Ostia ha aderito alle sue dita […], il sacerdote le pulisca sopra la patena, o se ciò è necessario le lavi» («Institutio», N°237). È stato soppresso l’obbligo per il sacerdote di tenere unite le estremità degli indici e dei pollici da dopo la Consacrazione fino alla purificazione, rubrica che, nell’«Ordo» romano, vuole soprattutto esprimere la venerazione suprema con cui le specie consacrate devono essere toccate. La purificazione dei vasi sacri sull’altare non è più prescritta; la si può fare dopo la messa e «se possibile» sulla tavola dove stanno le ampolle («Institutio», NN. 238 e 120).




Salvo in caso di altare fisso, l’uso della pietra sacra per la celebrazione della messa non è più obbligatorio («Institutio», N° 265). Notiamo che quest’ultima disposizione tende in sé stessa ad agevolare le celebrazioni di messe «casalinghe», cerimonie dall’apparenza esteriore di semplici banchetti.




Possono prendere parte alle sacre funzioni il diacono senza indossare la dalmatica, ed il diacono senza la tunica ovvero solamente col camice («Institutio», N° 81). Quando ci sono più concelebranti, essi si possono dispensare dall’indossare la pianeta se non ve ne sono in numero sufficiente o se si presentano altre difficoltà; in tal caso sarà sufficiente che la indossi il celebrante principale («Institutio» N° 161).




L’«Institutio» definisce che, in considerazione della natura del segno, non solamente il vino ma anche il pane, «devono essere sotto forma di vero cibo» (89), ragione per cui conviene che il pane «sia fatto in modo tale che nella messa con il popolo, il sacerdote possa veramente dividere l’Ostia in più bocconi e distribuirla almeno ad alcuni fedeli» (N° 283). Dunque i redattori della B.A.C. obbediscono più che bene alle disposizioni dell’«Institutio» quando presentano, con molti particolari, il modo di fabbricare una pagnotta di 20 g. e di 12 mm. di spessore (90).




Le nuove rubriche tendono a diminuire il numero di messe da Requiem. Come abbiamo visto al N° 316 dell’«Institutio», il sacerdote, per non tralasciare molte volte le letture bibliche indicate dal lezionario, «dovrà ridurre le messe da Requiem, poiché OGNI MESSA VIENE OFFERTA SIA PER I VIVI CHE PER I MORTI, ed in tutte le preghiere eucaristiche c’è un memento dei defunti» (91). Indubbiamente è auspicabile che i fedeli facciano dire messe, non solamente per i defunti, ma anche per le intenzioni della Chiesa militante. Così è sempre stato. Se a proposito delle messe da Requiem si deve correggere un eccesso, è pericoloso farlo in nome del principio secondo cui «ogni messa viene offerta sia per i vivi che per i morti»; in effetti, tale asserzione non esprime la verità integrale e tende a smorzare nei fedeli il santo desiderio di far dire delle messe per determinati defunti e per le anime in generale (cfr. II Macc., XII, 41-46). Il N° 337 riduce il numero delle messe da Requiem permesso ed il N° 340 abolisce l’absolutio super tumulum nelle messe in cui la salma non è fisicamente presente.




Non è più necessario che la Croce sia sull’altare (NN. 79, 84, 236 b, 270).




Nel caso in cui la comunione è data sotto le due specie, i fedeli sono obbligati a riceverla in piedi (NN. 244 c, 244 d, 245 b, 249 b). Per la comunione data solamente sotto la specie del pane, la posizione non viene determinata (NN. 56,117).




Solamente una tovaglia deve coprire l’altare, a differenza delle tre usate in passato (N° 79).




Con l’autorizzazione della Conferenza episcopale, le letture, tranne quella del Vangelo, possono essere lette dalle donne (N° 66). «Le donne possono esercitare i ministeri fuori dal santuario [presbyterium]» (N° 295).




Il SS.mo Sacramento non dev’essere normalmente posto all’altare dove si celebra la messa (N°276).




È stata autorizzata la costruzione di chiese e la fabbricazione di oggetti di culto in qualsiasi stile artistico (NN. 254,287) (92), e si accorda grande libertà quanto alla forma dei vasi sacri (N° 295).




Infine vogliamo attirare l’attenzione del lettore sul carattere di festa e di indaffaramento che si da alla nuova messa. Numerose persone esercitano, durante la messa, funzioni speciali (vedi «Institutio», nn. 65-73): oltre al sacerdote (o ai sacerdoti, in caso di concelebrazione), al diacono ed al suddiacono, ci sono un commentatore, un lettore (od una lettrice), un salmista, un maestro delle cerimonie, gli uscieri (incaricati di ricevere i fedeli alla porta della chiesa e di condurli ai loro posti), i questuanti, i turiferari, i portatori di ceri, i portatori del messale alla processione d’entrata, della Croce e se possibile, del pane, del vino e dell’acqua. Possono esserci anche più di un diacono, d’un suddiacono, d’un commentatore, d’un lettore e d’un salmista. Come abbiamo già detto, alle donne si possono affidare le funzioni al di fuori del santuario (presbyterium) (93). Esiste anche il cantore o maestro di coro (nn. 64 e 78) e la schola cantorum (nn. 64 e 274). Ci saranno due processioni: quella d’entrata, nelle messe ordinarie («Institutio», N° 82) e nelle messe concelebrate (N° 162), e quella dell’offertorio (nn. 49 e 50), durante la quale i fedeli portano all’altare il pane, il vino, l’acqua e se possibile, altri doni per i poveri e per la chiesa. Inoltre, ci saranno delle acclamazioni e dei responsori dei fedeli («Institutio», N° 15); dei canti, ai quali si da una grande importanza (N° 19), delle spiegazioni ed avvisi (nn. 11 e 18), ecc… In molti punti, al celebrante è lasciata una grande libertà nella scelta delle preghiere e dei riti (94). Al N° 66, l’«Institutio» raccomanda che il lettore sia capace e preparato a questa funzione, «affinché i fedeli, ascoltando le letture divine, possano concepire nei loro cuori una predilezione dolce e vivente per la Sacra Scrittura» (95). Come si può notare, tutto ciò è fatto per dare alla messa un aspetto d’agape gioiosa, di commemorazione piacevole e non di sacrificio propiziatorio, nel quale il Figlio di Dio s’immola per i peccati e l’ingratitudine degli uomini. Un’altra significativa espressione di quest’aspetto di spensieratezza e di gradevole banchetto che si vuol imprimere alla messa, è fornito dal commento che la B.A.C. fa sul N° 280 dell’«Institutio». Vi si legge infatti, che il «tempio deve essere ben illuminato», e che le luci devono essere poste in modo da creare «un riposo psicologico» e «un’atmosfera gradevole agli occhi»; che la disposizione delle sedie deve essere tale che i fedeli possano vedere bene il santuario e vedersi reciprocamente e che «nel tempio deve innanzi tutto [sic] regnare la pulizia» (96). Gli stessi autori della B.A.C. proseguono: «Prima di dare inizio a lunghe riunioni, bisognerà anche stare attenti agli odori, per evitare che essi siano sgradevoli […] e profumare discretamente il luogo con dei prodotti che oggi si vendono economicamente ed in quantità, e che si utilizzano abitualmente in altri luoghi di riunione come i teatri, i cinema, le sale per i concerti o le conferenze, ecc… «Se ciò è possibile, sarà di grande efficacia pastorale provvedere ad un vestibolo, ad un’entrata, ad un porticato o a qualcosa di simile, dove non manchino le relative comodità, affinché le persone possano incontrarsi entrando ed uscendo e scambiarsi alcune parole, riposarsi, attardarsi, acquistare una rivista o ristorarsi ad un piccolo bar. Questi segni umani, preparano ammirabilmente al segno liturgico e lo prolungano, e danno tanto al pastore che agli assistenti una buona opportunità d’incontrarsi» (97).

 

G) CONCLUSIONE

 

Per le ragioni che abbiamo presentato, in coscienza, non vediamo come evitare la conclusione secondo cui è impossibile accettare i testi del 1969 della nuova messa. Tuttavia, rimandiamo al termine di questo studio (98) una valutazione circostanziata sull’atteggiamento da prendersi verso la nuova messa.

 

CAPITOLO QUARTO

 

MODIFICHE APPORTATE ALL’«ORDO» DEL 1969

 

Nel maggio del 1970, fu pubblicata l’edizione latina del nuovo messale romano. L’«Institutio» e l’«Ordo» del 1969 apparvero con numerosi cambiamenti che andremo ad analizzare nel presente capitolo. La riforma del messale romano, promulgata nel 1969, secondo la dichiarazione di Paolo VI, non fu improvvisata (1), ma fu il risultato di lunghi ed approfonditi studi. Se questa dichiarazione corrisponde alla verità - vista anche l’importanza del soggetto stesso - è impossibile immaginare che ci sia una sola di queste proposizioni che non sia stata accuratamente soppesata, e ciò non soltanto da un punto di vista teologico, ma anche da un punto di vista pastorale, viste le preoccupazioni essenzialmente pastorali di questo pontificato. È per questo che si rimane alquanto sorpresi nel vedere che, poco tempo dopo la loro promulgazione, tali documenti hanno subito numerose modifiche, che la Santa Sede ha stimato necessarie o quanto meno opportune sia da un punto di vista teologico, che da un punto di vista pastorale. Questi fatti impongono ad ogni persona attenta una circospezione particolare per analizzare gli emendamenti introdotti, obbligandola ad usare molta applicazione e molta perspicacia nell’esame di ciascuno di essi. E ciò che noi cercheremo di fare, secondo le nostre possibilità in questo capitolo.

 

1. I principali punti del prologo dell’«Institutio»

 

In un articolo pubblicato dalla rivista Notitiæ, della Sacra Congregazione per il Culto divino, a riguardo della riforma dell’«Ordo» del 1969, il segretario di questa Congregazione, Mons. Annibale Bugnini, scriveva: «Il prologo è interamente nuovo e particolarmente lungo […]. Esso insiste su tre concetti:

a) la storia del messale romano, soprattutto da dopo il Concilio di Trento fino al Concilio Vaticano II, per giustificare le modifiche introdotte nel messale secondo le indicazioni dell’ultimo Concilio Ecumenico;

b) la fedeltà teologica e rituale dell’uno e dell’altro messale alla dottrina della Chiesa;

c) i criteri che hanno presieduto alla riforma»(2). Questo prologo manifesta senza alcun dubbio la preoccupazione di enunciare alcuni insegnamenti di dottrina cattolica che difettano nell’«Institutio», o che non vi sono correttamente spiegati. Esso insiste sul principio del sacerdozio ministeriale del celebrante, e fa allusione alla presenza reale di Nostro Signore nell’Eucarestia ed alla transustanziazione. Esso contiene inoltre numerose citazioni del Concilio di Trento, affermando a diverse riprese che la messa è un sacrificio e dichiarando che essa non è altro che il rinnovamento sacramentale del sacrificio della Croce. In un articolo, esso dice esplicitamente che la messa è un sacrificio propiziatorio e dichiara a più riprese la sua intenzione di mantenersi fedele alla tradizione. Dopo una rapida lettura di questi passi del prologo, si potrebbe essere portati a credere che esso corregge tutte le imprecisioni, insufficienze e deviazioni dottrinali rilevate nella nuova messa. Tuttavia, un attento studio di questi stessi passi, così come degli altri articoli del prologo e dell’«Institutio» nella sua attuale edizione, sfortunatamente, non giustifica questa impressione migliore; le modifiche attualmente introdotte non apportano un cambiamento sostanziale alle osservazioni fatte in precedenza a proposito della nuova messa.

 

2. Il sacerdozio del popolo

 

A dire il vero, negli stessi passi di sapore tradizionale, dove il prologo afferma dei punti precedentemente passati sotto silenzio o espressi in modo dubbioso, incontriamo delle formulazioni del tutto insufficienti, sulle quali si debbono fare importanti riserve. Vediamo qualche esempio. Nell’articolo 4, leggiamo: «La natura del sacerdozio ministeriale, propria del sacerdote che al posto di Cristo [in persona Christi], offre il sacrificio e presiede l’assemblea del popolo santo, si manifesta, nella forma stessa del rito, per il fatto che il sacerdote è posto più in alto del popolo, e per la funzione stessa del sacerdote. I principi di questa funzione sono più chiaramente sviluppati e più pienamente esplicati nel ringraziamento della messa, alla benedizione del Sacro Crisma, il giovedì Santo, giorno in cui si commemora l’istituzione del sacerdozio. In effetti, questo testo insiste sulla trasmissione del potere sacerdotale, realizzata tramite l’imposizione delle mani; inoltre, enumerando ciascuna di queste funzioni, esso descrive questo potere che è una continuazione del potere di Cristo, il Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento». Da un lato, è vero che in questo testo si afferma che il celebrante agisce al posto di Cristo (in persona Christi) e che il suo potere è una continuazione del potere sacerdotale di Nostro Signore (3). Tuttavia, il testo stabilisce un parallelo pericoloso tra l’«offerta del sacrificio» e la «presidenza dell’assemblea del popolo santo», poiché questa seconda funzione, pur essendo realmente sacerdotale, è secondaria, accidentale e semplice conseguenza della prima. Anche in assenza dell’«assemblea del popolo santo», il celebrante esercita nella messa la pienezza della sua funzione sacerdotale. Inoltre, l’importanza data al ruolo presidenziale del sacerdote nella messa, favorisce tra i fedeli l’impressione che il sacrificio sia celebrato sia dal popolo che dal sacerdote (4). Aggiungiamo che questo passo non esclude, per esempio, l’interpretazione eterodossa che i redattori della B.A.C. (5) danno al principio che dice che il sacerdozio del celebrante è «ministeriale». Secondo essi, il sacerdote è essenzialmente un «ministro», e cioè contemporaneamente rappresentante e servitore di Nostro Signore (verità questa che il documento afferma), e del popolo, il che gli conferisce una dignità che non è superiore a quella dei fedeli (6). Dunque, considerando il contesto dell’«Institutio», le critiche che sono state fatte a giusto titolo su questo punto, e le interpretazioni erronee che sono apparse, sarebbe stata buona cosa - ed anche indispensabile - se l’«Institutio», nella sua versione corretta, avesse eliminato una volta per tutte questo pericolosissimo errore che distrugge completamente la dottrina del sacerdozio cattolico. Sarebbe invece stato necessario affermare, non solamente il carattere ministeriale del sacerdozio, ma anche la sua natura gerarchica, che lo pone essenzialmente al di sopra di qualsiasi rappresentanza di Cristo, sia che essa esista nel popolo o che provenga dal popolo stesso.




L’articolo 5 del prologo è di una gravità ancora maggiore, soprattutto a causa del fatto che le apprensioni provocate dall’articolo precedente, vi trovano un ulteriore conferma. Ma ecco come si esprime: «Ma attraverso la considerazione della natura del sacerdozio ministeriale, viene ugualmente posta sotto la sua vera luce un’altra realtà di grande importanza, e cioè il sacerdozio regale [regale] del fedele, il cui sacrificio spirituale è consumato dal ministero dei consacrati in unione con il sacrificio di Cristo, l’unico Mediatore. In effetti, LA CELEBRAZIONE DELL’EUCARESTIA È L’AZIONE DI TUTTA LA CHIESA (7), e in questa azione, ciascunio deve fare solamente e completamente ciò che gli incombe, non perdendo di vista la posizione che occupa nel popolo di Dio(8). Per questa ragione, è stata posta maggiore attenzione ad alcuni aspetti della celebrazione, ai quali, nel corso dei secoli, era stata data minore importanza. Infatti, questo popolo è il popolo di Dio, riscattato dal Sangue di Cristo, riunito dal Signore e nutrito dalla Sua Parola; UN POPOLO CHIAMATO PER FAR GIUNGERE FINO A DIO LE PREGHIERE DI TUTTA LAFAMIGLIA UMANA; un popolo che ringrazia in Cristo per il mistero della salvezza, OFFRENDO IL SUO SACRIFICIO; infine, un popolo che, per la sua comunione al Corpo ed al Sangue di Cristo, cresce nella sua unità. Questo popolo, essendo santo fin dalle origini, cresce non meno continuamente nella sua santità attraverso questa stessa partecipazione cosciente, attiva e fruttuosa al mistero eucaristico» (9). Allorché consideriamo attentamente i termini di questo articolo, vediamo che essi affermano nuovamente ed in maniera più chiara la concezione del sacerdozio del popolo, che abbiamo precedentemente segnalato come inaccettabile (10). In effetti, quali sono gli «aspetti della celebrazione, ai quali, nel corso dei secoli, era stata data minore importanza»? Uno di essi è il fatto che il popolo santo è «chiamato per far giungere fino a Dio le preghiere di tutta la famiglia umana». Un altro, è il fatto che questo popolo «ringrazia, in Cristo, per il mistero della salvezza, offrendo il suo sacrificio». Come si può notare, ritorniamo alle stesse imprecisioni ed ambiguità che già esistevano nel testo precedente dell’«Institutio» e nei rispettivi commentari della B.A.C., in quanto, benché si possa dire, in senso largo e per analogia, che i semplici fedeli «facciano giungere fino a Dio le preghiere» degli altri, e che «offrano il sacrificio di Cristo», queste espressioni non indicano, in senso stretto, che la missione specificatamente sacerdotale del celebrante, sulla quale il prologo sembra voler insistere(11). Del resto, questo passo fa una strana distinzione tra il «popolo di Dio» e la «famiglia umana», poiché dice che il primo, attraverso l’azione sacerdotale che esso esercita nella messa, fa giungere fino a Dio le preghiere «di tutta la famiglia umana». Presa nel suo senso naturale, questa espressione indica che il «popolo di Dio» esercita una funzione di mediazione propriamente sacerdotale fra tutta l’umanità (compresi i non-cattolici, i non-cristiani, gli atei, ecc…) e Dio. Anzi, giacché l’espressione che segue immediatamente attribuisce allo stesso «popolo di Dio» la facoltà d’«offrire il sacrificio di Cristo», sembra che attraverso la messa, siano presentate e rese gradite a Dio le preghiere di tutti gli uomini senza alcuna discriminazione, e cioè includendovi quelle dei non-cattolici, dei non-cristiani, dei politeisti, degli atei, ecc… Tale concezione della messa è talmente strana da accordarsi con un certo ecumenismo eterodosso che sta propagandandosi in importanti strati del pubblico cattolico. Alla luce delle pericolose ambiguità di questo quinto articolo del prologo, i timori espressi precedentemente, a proposito dell’articolo 4, sono aggravati. Infatti, in questo articolo, non solamente il silenzio a riguardo del carattere gerarchico del sacerdozio ministeriale, ma anche l’assenza di una concezione più chiara della rappresentanza di Cristo espletata dal sacerdote, favoriscono e preparano una nozione erronea del sacerdozio dei fedeli.

 

3. Il ritorno alle norme dei papi

 

Gli articoli 6 e 9 del prologo cercano di dimostrare che il nuovo «Ordo missæ», non è in contrasto con i principi cattolici tradizionali, ed in particolare con quelli enunciati a Trento, ma piuttosto che esso li conferma. Per difendere questa tesi, il documento adduce che il Concilio Vaticano II ha ordinato che i riti «siano ristabiliti secondo le antiche norme dei papi» (12), il che è un’espressione, ipsis litteris, che si trova nella Costituzione apostolica Quo primum, con la quale San Pio V promulgò il messale tridentino. Per gli autori del prologo, questo punto di rassomiglianza esteriore, è parso sufficiente per dimostrare che il nuovo messale segue la stessa tradizione di quello di San Pio V, e ciò a tal punto che, nelle righe successive, non ci si preoccupa minimamente di dimostrare che la nuova messa è in accordo con gli insegnamenti tridentini, ma ci si accontenta di dichiarare che l’«Ordo» di Paolo VI è riuscito a «ristabilire le antiche norme dei Padri della Chiesa» in modo più perfetto dell’«Ordo» di San Pio V. Ciò premesso, le affermazioni fatte negli articoli precedenti al prologo, a riguardo della transustanziazione, del carattere sacrificatorio e propiziatorio della messa, ecc…, restano per così dire, per aria, senza alcuno sforzo per dimostrare che questi principi non sono contraddetti dai passi della nuova messa segnalati come contrari alle dottrine di Trento(13). Si insiste, allora, su di un elemento estrinseco, ch’è l’intenzione di ristabilire i riti secondo le norme dei Padri della Chiesa. In quali termini il prologo cerca di dimostrare che la messa di Paolo VI ha obbedito a questa intenzione come quella di San Pio V? Le differenze tra le due messe sono così evidentemente grandi che, per gli autori del prologo, la difficoltà principale è consistita nello spiegare come sia stato possibile che la stessa regola abbia portato a dei risultati così diversi. In altre parole: com’è stato possibile che la medesima intenzione di ristabilire i riti secondo le norme dei Padri della Chiesa, abbia condotto a due modi così differenti di dire la messa? Dando una prima risposta a questa domanda, gli autori del prologo scrivono: «In un’epoca veramente difficile, in cui la fede cattolica, riguardante il carattere sacrificale della messa, il ministero sacerdotale e la presenza reale e permanente di Cristo nelle specie eucaristiche era in pericolo, per San Pio V fu soprattutto importante conservare la più recente tradizione, ingiustamente attaccata, motivo questo per cui furono introdotte nel sacro rito solamente alcune piccole modifiche» (14). Negli articoli successivi, il prologo afferma che essendo le antiche liturgie molto meglio conosciute ai nostri giorni che nel XVI secolo, è stato possibile riformare la messa in maniera molto più profonda (15). Da qui la conclusione che l’«Ordo» di San Pio V è stato perfezionato da quello di Paolo VI «in modo notevole e felice» (16).

 

4. Forse che oggi questi errori non esistono più?

 

Insinuare che oggi non è necessario conservare il rito tradizionale in quanto, ormai, i dogmi relativi al carattere sacrificale della messa, al sacerdozio ministeriale ed alla presenza reale, non sono più in pericolo come ai tempidi San Pio V, è motivo di grande perplessità (17). Non vediamo proprio come si possa negare il fatto pubblico e notorio che alcuni importanti ed influenti settori dell’opinione cattolica dei più diversi paesi accettano e propagano gli errori più gravi sui punti principali della dottrina eucaristica, ed in particolare, a riguardo di quei punti che il prologo afferma ai nostri giorni non essere più contestati da nessuno. Senza ricorrere ai documenti di Pio XII (18) (che condannano molte pratiche che sono state in seguito adottate dal nuovo «Ordo»), menzioneremo qui alcuni dei fatti più recenti. Nell’enciclica Mysterium fidei, del 3 settembre 1965, Paolo VI ha dichiarato che gli errori che circolano sulle messe private, sulla transustanziazione e sul simbolo eucaristico, sono per lui «serie cause di sollecitudine ed inquietudine pastorale» (19). Lo stesso documento insiste sulla «distinzione non solamente di grado ma d’essenza» tra il sacerdozio gerarchico e quello dei fedeli (20). Forse che, in questa enciclica, Paolo VI ha attaccato delle eresie che nessuno professa più? Il catechismo olandese e quelli che gli assomigliano, di altri paesi, cadono proprio in questi stessi errori (21). Come si potrebbe, per esempio, negare che Padre Schillebeeckx, tenuto in così alta considerazione, abbia a suo tempo proposto le nozioni di «transfinalizzazione» e di «trasfigurazione» in termini che sono inconciliabili con la dottrina della Chiesa (22) e che sono già stati condannati da Paolo VI (23)? Come si potrebbe negare che nel Consilium ad Exsequandam Constitutionem de Sacra Liturgia (24), ora rimpiazzato dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, erano presenti alcune persone che adottavano i suddetti errori? In effetti, secondo quanto abbiamo già ampiamente dimostrato - con tanto di documentazione - l’opera Nuevas normas de la misa, il cui principale autore era nel Consilium in qualità d’esperto, professa ora chiaramente ed ora in modo velato, le identiche deviazioni dottrinali (25). Abbiamo già esternato la nostra sorpresa nel constatare che, nei documenti che presentano la nuova messa, vengano unicamente segnalati gli aspetti favorevoli del movimento liturgico dell’epoca di Pio XII, mentre si passano totalmente sotto silenzio i gravissimi errori che indussero il papa a scrivere l’enciclica Mediator Dei. Gli autori del prologo dell’«Institutio» affermano che attualmente tali errori non esistono più. Un’analisi scientifica ed obiettiva di queste dichiarazioni ci obbliga a concepire l’ipotesi che gli autori del prologo si siano lasciati trascinare in un processo dialettico noto e pericoloso: in teoria, essi ammettono che alcune dottrine siano eretiche, ma in concreto, negano che ci sia qualcuno che le professi; da quel momento, essi perseguono un’azione che, sia nell’ordine della propaganda ideologica che nella vita pratica, contribuisce a favorire o ad accrescere l’errore (27). A questo aggiungete che la non-esistenza di tali deviazioni dottrinali è addotta dal prologo stesso (28), per cui ci si può benissimo permettere d’introdurre nella messa tutte quelle innovazioni che San Pio V aveva giustamente rigettato, in quanto a quel tempo, esse avrebbero potuto comportare grave danno per la fede. Ammettendo dunque che errori simili esistano ai nostri giorni - e su questo non vi è alcun dubbio - gli argomenti addotti dagli autori del prologo si ritorcono contro loro stessi.

 

5. Adattamento alle condizioni attuali

 

Come abbiamo già osservato(29), il prologo insiste sul fatto che il nuovo «Ordo» segua il Concilio di Trento, poiché come quest’ultimo, esso cerca di ristabilire i riti secondo le antiche norme dei Padri. L’argomento è insufficiente. Il ritorno alle norme stabilite dai Padri della Chiesa è un semplice criterio materiale; esso sarebbe formalmente specificato dall’orientamento secondo cui i testi dei Padri della Chiesa sono interpretati, secondo cui i passi da introdurre nella liturgia sono scelti, ecc… È per tale motivo che Pio XII condannò gli sforzi di coloro che, «per riadattare alcuni antichi riti e cerimonie» (30), finiscono per «far rinascere gli eccessivi ed insensati arcaismi creati dall’illegittimo Concilio di Pistoia e […] per rinnovare i molteplici errori che prepararono questo Concilio o che lo seguirono»(31). Sulla stessa linea, dom Guèranger denunciò le rivendicazioni dei «diritti dell’antichità» come una delle tattiche impiegate da «tutti i settari» per distruggere le vere tradizioni liturgiche ed introdurre così le loro nuove forme di culto, le quali, in realtà, non corrispondono per nulla alle antiche tradizioni (32). D’altra parte è noto che un’espressione legittimamente impiegata da un Padre della Chiesa, può servire, più tardi ed in seguito a particolari circostanze, a favorire l’eresia. È ciò che è accaduto ad esempio, per l’espressione di Sant’Agostino, «la fede salva», di cui i protestanti hanno abusato, interpretandola in modo incompatibile con la buona dottrina (33). Come abbiamo già avuto modo di notare, la riforma del 1969 stabilisce un culto che tende a desacralizzare e a confondere il sacerdozio gerarchico e quello del popolo, a mettere sullo stesso piano la «liturgia della Parola» e la «liturgia eucaristica», ed a rompere, in ultima analisi, con dei costumi e dei riti tradizionali tra i più venerabili. Cosa c’è in comune tra questa riforma e quella di San Pio V? Sfortunatamente, questo unico elemento materiale ed esteriore che consiste nel manifestare, tanto da parte di San Pio V che di Paolo VI, l’intenzione di restaurare alcuni riti secondo le norme dei Padri… Sentendo la necessità di spiegare ancor meglio il motivo per cui questa restaurazione si presenta oggi così diversamente (34), gli autori del prologo hanno dedicato a tale questione gli ultimi sei articoli (35). «Quando i Padri del Concilio Vaticano II - leggiamo all’articolo 10 - riaffermavano le definizioni dogmatiche del Concilio di Trento, parlavano in un’epoca molto diversa, per cui, in materia pastorale, essi potevano stabilire degli scopi e delle direttive che NON POTEVANO ESSERE STATI PREVISTI QUATTRO SECOLI PRIMA» (36). Come possiamo notare, l’espressione utilizzata è così forte da mostrare come gli autori del prologo avessero una nozione assai netta della distanza che separa i documenti di Trento da quelli che hanno determinato le recenti riforme liturgiche. Negli articoli che seguono, essi tentano di spiegare come, attualmente, essendo scomparsi gli errori del XVI secolo relativi al culto eucaristico, è possibile introdurre la lingua volgare (articoli 11 e 12), la comunione sotto le due specie per i singoli fedeli (articolo 14), dei nuovi testi di preghiere nella messa (articolo 15), ecc… Dato che non è nostro scopo fare un’analisi completa del prologo, ci accontenteremo, a proposito di questi ultimi paragrafi, di fare qualche osservazione per mostrare chiaramente in quali punti sono ripetute alcune deviazioni già presenti nell’«Institutio».

 

6. «Il sacrificio eucaristico è soprattutto un’azione di Cristo»

 

La nota dominante di questi ultimi paragrafi è la preoccupazione di dimostrare che, poiché il pericolo di confusione tra il sacerdozio gerarchico e quello dei fedeli non sussiste più, diventa possibile permettere una maggiore partecipazione del popolo alle cerimonie liturgiche. Per giustificare questa maniera di procedere, il prologo afferma che il Concilio di Trento, «avendo di fronte le circostanze dell’epoca, giudicò ch’era suo dovere d’inculcare, ancor maggiormente, la dottrina tradizionale della Chiesa, secondo cui, essendo il sacrificio eucaristico innanzi tutto un’azione di Cristo, la sua particolare efficacia non è affatto intaccata dal modo in cui i fedeli vi partecipano» (37). Tale formulazione delle relazioni che intercorrono tra il sacerdozio di Nostro Signore e quello dei fedeli, è incompleta e pericolosa. In questo delicato problema, la questione non consiste solamente - né soprattutto - nel sapere se il sacrificio è in qualche modo intaccato dalla partecipazione dei fedeli, ma consiste soprattutto nel sapere se, quando essi partecipano, concelebrano con il sacerdote, e cioè, se così essi sono, come il sacerdote, dei rappresentanti ufficiali di Nostro Signore per l’esecuzione delle funzioni liturgiche. È in questa prospettiva che le modifiche introdotte nel 1970 nell’«Institutio» falliscono di nuovo miseramente. Nel contesto del paragrafo che stiamo attualmente analizzando, la parola imprimis (soprattutto, principalmente, in primo luogo) dichiara che, nel suo elemento essenziale, il sacrificio è l’azione di Cristo, ma che non esclude esplicitamente che questo sia anche l’azione dei fedeli. Nella prospettiva del prologo, tale azione dei fedeli non è esclusa; essa viene piuttosto considerata come un elemento importante per la celebrazione della messa (38). Ora, l’immolazione sacrificale in senso stretto è esclusivamente un’azione di Nostro Signore, rappresentato dal celebrante, che partecipa come strumento, ma non è, in alcun caso, un’azione dei fedeli. Questi ultimi, possono e devono unirvisi in spirito, offrendo la vittima ed offrendo sé stessi in unione con essa, ma non realizzano in alcun modo l’azione sacrificale propriamente detta (39). Inoltre, il testo che stiamo analizzando, non essendo affatto chiaro, apre nuovamente la porta ad una concezione erronea relativa al sacerdozio dei fedeli. Di conseguenza, le ragioni addotte immediatamente dopo per giustificare nel nuovo «Ordo», contrariamente a quello di San Pio V, l’introduzione della lingua volgare, della comunione sotto le due specie per i fedeli, ecc…, perdono il loro valore; in effetti, simili misure d’ordine pratico favoriscono, nel contesto della nuova messa, una nozione di sacerdozio dei fedeli erronea e modernista.

 

7. Il linguaggio della teologia moderna

 

All’articolo 15, il prologo presenta il seguente paragrafo: «Essendo l’evoluzione del mondo odierno (40) così valutata, sembrerebbe che, senza recar danno al venerabile tesoro dei testi di antica tradizione, si potrebbero modificare alcune frasi, affinché l’espressione verbale sia più in armonia con il linguaggio della teologia moderna, ed indichi realmente le condizioni attuali di disciplina nella Chiesa. Per questa ragione, alcune espressioni che facevano allusione alla valutazione ed all’utilizzazione dei beni terreni sono state modificate, così come lo sono state certe espressioni che insistevano su di una forma particolare di penitenza esteriore, propria di altre epoche della Chiesa». Questo passo è sintomatico. Il «linguaggio della teologia moderna» non è più quello della teologia dei Padri della Chiesa, né quello della teologia scolastica e nemmeno quello di Trento… Occorrerà, quindi, che la «valutazione» o l’«utilizzazione» dei «beni terreni» siano espresse in un’altra maniera per delle ragioni semantiche o grammaticali, o perché le nuove preghiere denotano un’«apertura» verso la desacralizzazione della vita cattolica? Abolendo «una forma particolare di penitenza esteriore, propria di altre epoche della Chiesa», non si prepara forse la via ad una religione antropocentrica, senza Croce e di sapore protestante? Inoltre, le norme di natura linguistica adottate dal prologo dell’«Institutio» cercano di spiegare e di giustificare l’orientamento profondamente desacralizzante che, in generale, presiede alle traduzioni del nuovo «Ordo» nelle lingue viventi dell’Occidente (41).

 

8. La revisione dell’«Institutio»

 

Presentando i cambiamenti introdotti nell’«Institutio» nel 1970, la rivista Notitiæ (42) scrisse: «Da quando l’«Institutio generalis missalis Romani» fu pubblicata […] è stata oggetto di diverse critiche, sia rubricali che dottrinali. Alcune di esse non furono affatto presentate in maniera chiara, soprattutto a causa della difficoltà di avere una visione globale dei punti trattati in diverse parti. Tuttavia, alcune censure furono fatte in seguito ad un’opinione preconcetta che si opponeva ad ogni genere di novità; per tale motivo, non è affatto sembrato necessario esaminarli, in quanto privi di alcun fondamento. In effetti, l’«Institutio» era stato sottoposto all’esame dei Padri del Consilium e degli esperti, prima e dopo della sua pubblicazione. Non si trovò alcuna ragione di modificare la disposizione degli articoli, e non vi si scoprì nessun errore dottrinale. È un documento pastorale e rubricale che regola la celebrazione della messa secondo la dottrina espressa nel Concilio Vaticano II, nell’enciclica Mysterium fidei di Paolo VI […] e nell’istruzione Eucharisticum mysterium[…]. «Tuttavia, al fine di evitare alcune difficoltà di prim’ordine, e per rendere più comprensibili certe espressioni, fu deciso che, in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica del nuovo messale romano, il testo dell’«Institutio» sarebbe stato qui e là completato o ritoccato (vedasi in proposito la dichiarazione della Sacra Congregazione per il Culto divino del 18 novembre 1969 in Notitiæ, n. 5, 1969, pagg. 417-418), il che, a dire il vero, non cambiò minimamente le cose, e lo schema della prima edizione rimase pressoché invariato. Gli emendamenti furono veramente pochi, talvolta minimi o concernenti unicamente lo stile»(43). Se volessimo esaminare completamente queste parole, avremmo numerose ed importanti osservazioni da fare e dimostreremmo quanto l’argomentazione secondo cui importanti critiche dell’«Institutio» traggono la loro origine dalla semplice «difficoltà di avere una visione globale dei punti trattati», è del tutto infondata. Effettivamente, proveremmo che la sedicente «opinione preconcetta che si opponeva ad ogni genere di novità» non è nient’altro che l’amore alla dottrina cattolica. Inoltre, osserveremmo che se i Padri del Consilium e gli esperti non hanno trovato errori dottrinali nel documento, ciò testimonia fortemente contro di loro e metteremmo in evidenza come sia inconcepibile che si insista ancora sul carattere «pastorale e rubricale» dell’«Institutio», quando è evidente che essa contiene anche numerosi passi di natura incontestabilmente dottrinale (44). E noi potremmo fare ancora più emendamenti al testo! Siccome il nostro obiettivo è solamente quello di dimostrare che l’«Institutio» malgrado le modifiche «talvolta minime» che ha subito, continua a non essere in accordo, su dei punti importanti, con la dottrina cattolica, prenderemo in attenta considerazione solamente un aspetto dell’articolo appena citato; la preoccupazione dei suoi autori di sostenere che gli emendamenti non erano destinati a correggere gli errori o a compensare le deficienze di natura dottrinale, ma solamente a rendere più chiaro ciò che era già contenuto nel documento. Stando così le cose si può temere, ancor prima di procedere all’analisi degli emendamenti precedentemente menzionati, che qualche volta essi sono stati incompleti o contraddittori e quindi incapaci di liberare, nel suo insieme, l’«Institutio» dai sospetti che gravano su di essa. Si può già temere, a priori, che la revisione del documento non abbia rappresentato che una semplice ritirata strategica, il che, crea concretamente alcune difficoltà a coloro che rilevano gli errori dell’«Institutio», ma che in realtà, consolida questi stessi errori, riaffermando alcuni di essi, ora chiaramente ed ora in un linguaggio sottile e mascherato. Ed ora passiamo all’analisi degli emendamenti introdotti nell’«Institutio generalis missalis Romani» nel 1970.

 

9. Il numero 7 dell’«Institutio»

 

Il tanto discusso N° 7 dell’«Institutio» è attualmente così redatto (45): «Nella messa o cena del Signore, il popolo di Dio è unito sotto la presidenza del sacerdote, che agisce al posto di Cristo [personam Christi gerente] per celebrare il memoriale del Signore o sacrificio eucaristico. In tal modo, tramite questa riunione locale della Santa Chiesa, la promessa di Cristo si applica in maniera eminente: «Là dove due o tre sono riuniti nel Mio nome, Io sono in mezzo a loro» (Mt. XVIII, 20). In effetti, nella celebrazione della messa, nel corso della quale il sacrificio della Croce è perpetuato, Cristo è realmente presente nell’assemblea stessa riunita nel Suo nome, nella persona del ministro, nelle sue parole, ed inoltre, sostanzialmente ed in modo permanente sotto le specie eucaristiche» (46). In questo nuovo testo, il N° 7 può, come in precedenza, essere ancora sottoposto a gravi correzioni. In verità, anche se l’apparenza di una definizione della messa è stata tolta, anche se si dice che il sacerdoteagisce al posto di Cristo, allorché è stata aggiunta un’allusione al sacrificio (eucaristico, ma non dice propiziatorio), anche se si dichiara che Nostro Signore è sostanzialmente ed in modo permanente presente sotto le specie eucaristiche, sussistono sempre delle ambiguità e delle deviazioni per nulla trascurabili. Il fatto più grave consiste nell’affermare ch’è il popolo che celebra il memoriale del Signore o sacrificio eucaristico (47). Occorre anche osservare che il termine celebrandum ha come «agente» populus Dei. Dopo tutto quello che abbiamo già detto sulla gravità di questo concetto (48), riteniamo superfluo ritornare su tale questione. Ci accontentiamo di notare che nel nuovo testo dell’«Institutio» questa nozione si incontra in più riprese (49), il che basterebbe ampiamente a dimostrare come il documento si allontani dagli insegnamenti della Chiesa (50). Anche nel nuovo testo del N° 7, ci si imbatte in strane imprecisioni relative alle diverse «presenze» di Nostro Signore nella messa. Si dice - ed è vero - che la presenza sotto le specie eucaristiche è «sostanziale e permanente». L’espressione è assolutamente esatta, ma la parola enim (poiché) stabilisce un rapporto che non è affatto chiaro e ch’è molto pericoloso se posto tra questa presenza sostanziale ed il principio precedentemente enunciato: «Là dove due o tre sono riuniti nel Mio nome, Io sono presente in mezzo a loro». Che relazione ci sarà tra queste due presenze? Il carattere comunitario dell’«assemblea riunita nel nome di Cristo» contribuirà affinché Egli divenga presente sotto le specie eucaristiche, Oppure questa seconda presenza sarà realizzata più pienamente? O forse che il «popolo di Dio» riunito esercita una funzione attiva per rendere effettiva la presenza sostanziale di Nostro Signore nell’Eucarestia? Il testo permette ad alcune pericolose ambiguità di stabilirsi attorno a tale questione, tanto più quando esso ha affermato poco prima che il «popolo di Dio» celebra il sacrificio. Non si stabiliscono più le distinzioni necessarie tra i diversi tipi di presenza non sostanziale di Cristo: e cioè nell’assemblea riunita, nella persona del ministro e nelle parole della Sacra Scrittura. Il fatto che l’assemblea sia menzionata prima del ministro è rivelatore; in effetti, ciò potrebbe indicare che la presenza di Nostro Signore nel popolo è se non superiore, tuttavia più fondamentale per la celebrazione eucaristica, della Sua presenza nella persona del ministro. Inoltre, come abbiamo già precedentemente osservato (51), il solo impiego dell’espressione personam Christi gerens non è sufficiente, nel contesto dell’«Institutio», per eliminare le ambiguità che il documento crea su questo argomento. Se strano è il profumo che si sprigiona da questo N° 7, anche nella sua nuova formulazione, occorrerebbe fare ancora molte altre correzioni: nella messa Nostro Signore diviene presente sotto le specie eucaristiche, ma non si può dire, puramente e semplicemente, che Egli è sostanzialmente ed in modo permanente presente sotto le specie eucaristiche. La parte di frase sacerdote præside personamque Christi gerente sembra subordinare la funzione del sacerdote come rappresentante di Cristo alla funzione di presidente dell’assemblea, quando in realtà è vero il contrario. Nel contesto, il fatto che l’espressione «presenza reale» non sia riservato alla presenza che deriva dalla transustanziazione, tende ad affievolire la fede nella «presenza reale» per antonomasia e ad introdurre tra i cattolici una terminologia gradita ai protestanti. Non si dice più come il sacrificio della Croce sia perpetuato nella messa, poiché il termine classico «è rinnovato» non vi figura più. Il commentario della rivista Notitiæ a proposito del N° 7, nella sua nuova redazione, non contribuisce che ad aggravare le ambiguità del testo. Eccone un esempio: «La struttura della celebrazione eucaristica è stata estratta dalla messa comunitaria, o messa con il popolo, nella quale l’«AZIONE DI CRISTO E DELLA CHIESA» avviene PIENAMENTE, e cioè l’azione del popolo di Dio gerarchicamente organizzato […], benché si DOVREBBE RICONOSCERE LA TOTALE EFFICACIA E DIGNITÀ della messa «privata» o messa senza il popolo […]» (52). Non è facile comprendere perché «si dovrebbe riconoscere la totale efficacia e dignità» della messa privata, quando l’«azione di Cristo e della Chiesa» non vi avviene «pienamente». O questa frase non ha alcun senso, o essa insinua che nella messa «comunitaria» i fedeli presenti concelebrano veramente con il sacerdote, l’«azione di Cristo e della Chiesa» raggiungendo così la sua «pienezza».

 

10. Le altre numerose modifiche

 

L’inizio del N° 48 presenta attualmente il seguente testo: «Durante la Cena, Cristo ha istituito il sacrificio e banchetto pasquale, dimodoché il sacrificio della Croce diviene continuamente presente nella Chiesa quando […]»(53). Come si può notare, l’espressione «commemorazione della Sua morte e della Sua resurrezione» è stato sostituito da «sacrificio ed il banchetto pasquale», facendo ancora allusione al sacrificio della Croce. Tuttavia, la già segnalata ambiguità annessa al termine «presenza», rimane (54). D’altra parte, non è malauguratamente detto che il sacrificio è propiziatorio: questa precisazione appare solamente nel N° 2 del prologo. Stando così le cose, la modifica introdotta al N° 48 non è andata abbastanza oltre per cambiare sostanzialmente l’apprezzamento quanto al valore dell’«Institutio».




Il N° 55 d è giunto alla seguente formulazione (55): «Racconto dell’istituzione E CONSACRAZIONE: tramite le azioni di Cristo VIENE REALIZZATO IL SACRIFICIO CHE CRISTO STESSO ISTITUÌ DURANTE LA CENA, quando OFFRÌ il Suo Corpo ed il Suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, e lo donò da mangiare e da bere AGLI APOSTOLI, lasciando a questi ultimi l’ordine di perpetuare questo mistero». Gli emendamenti introdotti in questo paragrafo costituiscono senza dubbio un’importante correzione dell’«Institutio». Era inammissibile che, nel passo centrale di questo documento, il titolo non utilizzava che le parole «racconto dell’istituzione», e non parlava neanche di sacrificio. Si sperava che sarebbe stata eliminata l’insinuazione secondo cui, nella Cena, Cristo donò il Suo Corpo ed il Suo Sangue solamente agli Apostoli, senza offrirli per tutti gli uomini. L’ambiguità riguardante la nozione di «presenza» è scomparsa. Anche l’insistenza sul fatto che la messa commemora la morte e la Resurrezione di Nostro Signore è stata soppressa. Come abbiamo già fatto notare (56), questa insistenza rivestiva una forma tale da favorire una concezione errata della Santa Eucarestia. Senza dubbio, la Resurrezione è in rapporto speciale con la messa, poiché essa è considerata dai teologi come una manifestazione dell’accettazione del sacrificio del Calvario da parte di Dio Padre. Ma l’eccessiva insistenza sul fatto che l’Eucarestia commemora anche la Resurrezione contribuisce a dissimulare il carattere sacrificale e propiziatorio della messa. Qualunque cosa ne sia, anche qui gli emendamenti apportati sono assolutamente insufficienti per rendere l’«Institutio» accettabile nel suo insieme; tanto più che, come diremo più avanti (57), non sono stati per nulla corretti numerosi passi in cui il documento insinua gli stessi errori, attualmente estromessi dal N° 55 d.




Nel N° 60, la dove prima si leggeva: «Il sacerdote celebrante presiede anche l’assemblea, agendo al posto di Cristo […]», ora si legge: «Anche il sacerdote, CHE NELLA SOCIETÀ DEI FEDELI HA IL SACRO POTERE DEGLI ORDINI, D’OFFRIRE IL SACRIFICIO, PRENDENDO IL POSTO DI CRISTO, presiede anche l’assemblea […]» (58). Questa correzione introduce indubbiamente la nozione del sacerdozio strumentale del prete, ma il suo effetto benefico non va abbastanza oltre per distruggere ciò che è criticabile nei diversi passi in cui, come abbiamo già mostrato, l’«Institutio» afferma esplicitamente che anche il popolo celebra. In questo stesso N° 60, è stato apportato anche questo emendamento dove era detto che il sacerdote «partecipa con i suoi fratelli al Pane della vita eterna, AL QUALE EGLI PARTECIPA CON ESSI» (59). Come si può notare, il nuovo testo fa allusione alla funzione sacerdotale del prete, ma non distrugge in alcun modo le ambiguità precedentemente segnalate (60).




Alcune modifiche di minore importanza e che non richiedono commento, sono state apportate in diversi altri punti. Nel paragrafo finale del N° 59, dove si leggeva: «Se tuttavia il vescovo non celebra l’Eucarestia, ma delega qualcun altro per farlo […]», attualmente si legge: «Se tuttavia il vescovo non celebra l’Eucarestia, ma INCARICA qualcun altro di farlo […]» (61). Nel N° 56, ora si dice che solo i «fedeli che sono nelle disposizioni dovute» possono comunicarsi; in effetti, la formulazione precedente lasciava la porta aperta ad una interpretazione di natura protestante, secondo cui tutti i fedeli devono sempre comunicarsi. Nel N° 56 a, è stata introdotta una modifica, probabilmente per eliminare la pericolosa ambiguità del testo originale, secondo cui il Corpo di Cristo sembrerebbe essere perfettamente il «pane quotidiano» che domandiamo nel Pater. Nei nn. 80 c e 117, l’uso del piattino per la comunione dei fedeli è stato reintrodotto. Il N° 109 è stato modificato per permettere l’uso facoltativo delle campane alla Consacrazione. Il N° 125, nel suo nuovo testo, rende facoltativo in alcune circostanze il bacio dell’altare al termine della messa, il che rappresenta un’ulteriore provvedimento desacralizzante. I nn. 141, 152 e 208 sono stati modificati nello stesso spirito. Il N° 276 rende manifesto che al di fuori della messa, i fedeli dovranno, non solamente pregare davanti al SS.mo Sacramento, ma anche adorarLo. Il N° 283 comporta ora una nuova disposizione secondo cui il «pane eucaristico» di grandi dimensioni, che può essere spezzato in bocconi, dovrebbe tutavia «essere fatto secondo la forma tradizionale» dell’Ostia. Non si capisce molto bene il significato di questa modifica, tanto più che il commento di Notitiæ ammette l’uso di Ostie diverse, per la loro «taglia, spessore e colore», (62) dall’Ostia tradizionale. Ad ogni modo, l’introduzione di questa nuova disposizione mostra come gli autori della nuova messa si sono resi conto fino a qual punto si sono allontanati dall’«Ordo» tradizionale.




In diversi numeri sono state introdotte delle modifiche di ordine puramente disciplinare, rubricale, di stile o tipografico: i nn. 30, 32, 76, 95, 99, 120, 121, 143, 153 art. 1, 157, 158, 158 a, 158 c, 158 d, 234 a, 235, 242 art. 4, 242 art. 7, 242 art. 8 b, 242 art. 14, 290, 298, 299, 300, 308 a, 308 b, 315, 316, 319, 322 e, 329 a, 330, 332, 333, 334, 336 e 337. Queste modifiche non hanno - o non ne hanno che poca - importanza dottrinale. Ora, menzioneremo solamente alcuni casi in cui la comunione dei fedeli sotto le due specie e la concelebrazione sono permesse.

 

11. Modifiche nelle parti fisse della messa

 

Nell’«Ordo» propriamente detto, e cioè nelle parti fisse della messa, sono stati ugualmente introdotti diversi cambiamenti. Molti nuovi prefazi sono stati aggiunti, cosa che comporta un’argomentazione di volume considerevole ed esige una modifica di rilievo nella numerazione dei paragrafi. È stato anche deciso che purificando i vasi sacri, il celebrante deve dire a bassa voce la preghiera Quod ore sumpsimus precedentemente soppressa (63). Non commenteremo le altre modifiche introdotte nell’«Ordo», poiché esse non intaccano le critiche fatte in precedenza al testo del 1969. Ecco alcuni esempi di questi cambiamenti: prima del Vangelo si dicono le parole: «Dal Vangelo secondo N.»; è stato permesso, non importa in quale messa, di cantare le parti della preghiera eucaristica che si possono cantare nelle messe concelebrate; il Communicantes e l’ Hanc igitur di Pasqua devono essere dette fino alla seconda domenica dopo Pasqua e non fino al giovedì in albis; è stato prescritto che il sacerdote deve pronunciare il Pax Domini sempre di fronte al popolo.

 

12. Conclusione

 

In conclusione, come quelli del 1969, i testi del 1970 della nuova messa non possono essere, in coscienza, accettati.

 

CAPITOLO QUINTO

 

IL NUOVO ORDINARIO DELLA MESSA E LA CENA PROTESTANTE

 

Numerosi teologi hanno attirato l’attenzione del pubblico cattolico sull’ispirazione protestante e più particolarmente luterana, del nuovo «Ordo missæ». L’esame di tale questione prova chiaramente che essi non si sono ingannati. Per questo motivo, vorremmo mostrarvelo nelle pagine seguenti, basandoci sui documenti concernenti la Riforma e le sue innovazioni liturgiche, scritti sia da cattolici che da protestanti. Come dimostrerà l’analisi di questi documenti, la cena protestante e la nuova messa hanno in comune tratti malauguratamente non superficiali. Non si tratta unicamente di una somiglianza puramente apparente o accidentale, ma le analogie esistenti tra i due riti sono radicate nei loro presupposti.

 

A) UNA LENTA E PRUDENTE RIFORMA

 

Nel Dizionario di teologia cattolica, all’articolo Lutero, J. Paquier descrive nei seguenti termini il nuovo culto introdotto da Lutero: «Logicamente, la nuova religione non avrebbe dovuto avere che un culto, il culto interiore della fede; per esercitare questo culto interiore, si avrebbe potuto aggiungervi un sacramento, la Parola (1). Ma il passato cattolico di Lutero ed il suo buon senso, gl’impedirono di raggiungere le conseguenze logiche delle sue idee (2); il nuovo culto sarebbe stato una riduzione ed una trasformazione del culto cattolico, riduzione e trasformazione prudente, timida e molto rispettosa del passato (3). Dunque, per difendere il nuovo «Ordo», si vede come sarebbe insufficiente addurre che esso conserva ancora molte cose del messale tradizionale. «Il centro del culto cattolico - continua J. Paquier - è Gesù Cristo. La grande preghiera della Chiesa, il più grande atto del suo culto, è la messa, che produce contemporaneamente il sacrificio ed un sacramento. Il sacrificio: esso è innanzitutto un omaggio dell’uomo a Dio; la produzione di un sacramento: prima di tutto esso è una fonte di santificazione per l’uomo. Questo sacramento, è il sacramento dell’Eucarestia, o più semplicemente, come si diceva all’epoca di Lutero, il Sacramento. Di questa dottrina Lutero conservò sempre la credenza nella presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucarestia, ed è questo che lo distingue fortemente da Zuiglio, da Bucero, da Calvino, ed in una parola da coloro che, forse con un pizzico d’ironia, furono denominati i sacramentari» (5). Alla luce di tutto questo, appare chiaro come Pio VI (6) avesse ragione a condannare il sinodo di Pistoia che, pur ammettendo la «presenza reale», non aveva parlato della «transustanziazione». Ancora una volta, diventa assai chiara (7) la gravità dell’omissione commessa dal testo dell’«Institutio», allorché indica in che modo Gesù Cristo si trova nell’Eucarestia, non impiegando che il termine «presenza» senza nemmeno parlare di «presenza reale». Continua J. Paquier: «Tuttavia, egli apportò naturalmente a questo dogma delle modifiche profonde. Prima di tutto, questo Sacramento - non meno degli altri - non produceva la grazia; semplicemente, esso infondeva in noi la fiducia che i nostri peccati ci erano rimessi (8). Inoltre, dopo la Consacrazione, il pane ed il vino permangono a fianco del Corpo di Cristo: non avveniva nessun cambiamento di sostanza, nessuna transustanziazione, ma solo ampanazione (9). D’altronde, sia come uomo che come Dio, Gesù Cristo diveniva presente dappertutto; da quel momento, del resto, cosa avrebbe potuto impedirglielo visto che lo aveva fatto anche con l’Eucarestia? (10) E poi, quand’è che Gesù Cristo è presente nel pane e nel vino? Ordinariamente, Lutero diceva che ciò avviene unicamente al momento della Consacrazione e della comunione, ma su questo punto come su altri, egli cadde in numerosi contraddizioni (11); a causa di questo, alla sua scomparsa, la fede nella presenza reale tra i suoi seguaci, corse non pochi pericoli. «Infine - e soprattutto - Lutero attaccò la nozione di sacrificio (12). L’idea della messa lo mandava letteralmente in bestia; assieme al papato (13), la messa fu quella che più egli maggiormente ingiuriò» (14). Subito dopo, l’articolo del Dizionario di teologia cattolica descrive i violenti attacchi di Lutero contro le offerte della messa. Queste, secondo lui, avevano per conseguenza di far cadere nell’ozio moltissimi sacerdoti e di promuovere l’abuso delle opere caritatevoli. Per tale motivo egli diceva che la messa era opera del diavolo (15), e la più grande e la più orribile delle abominazioni papali e la coda del dragone dell’Apocalisse (16). Come J. Paquier fa giustamente notare, l’abuso delle offerte della messa non era nient’altro che una «ragione occasionale» per gli attacchi di Lutero contro quest’ultima (17), poiché, infatti, la logica della sua dottrina doveva inesorabilmente condurre all’abolizione totale della messa. È ciò che J. Paquier spiega più dettagliatamente in questo modo: «Ma contro la messa Lutero aveva una ragione infinitamente più importante: la messa andava contro la sua concezione di religione. Un tempo, il centro della religione era Dio. Prima di tutto, il culto era dunque un omaggio reso a Dio; il sacrificio ne era l’atto per eccellenza. Con Lutero, il centro della religione non è più Dio, ma l’uomo; il fine della religione diventa l’istruzione dell’uomo e soprattutto la sua consolazione. A che scopo, quindi, un’immolazione fatta a Dio per riconoscere il suo sovrano dominio sulla creatura? (18) Senza dubbio, Lutero conservò ancora il sacrificio della Croce, ma giunse a fare di questo sacrificio un’antica fase della religione, ed a contrapporlo alla vita religiosa che andava ad inaugurare. Da un lato, nel passato, c’era Cristo ed i suoi meriti, e dall’altro, nella sua concezione, noi, che non dobbiamo più meritare, ma semplicemente attirare su di noi, tramite la nostra confidenza in Lui, i meriti di Gesù Cristo (Weimar, tomo VIII, pag. 442, 1521)» (19).




E qui ci si potrebbe domandare se si riscontra tra gli indottrinatori del progressismo attuale una qualsiasi tendenza ad allontanare i fedeli dalla comunione frequente od a diminuire la loro devozione per la santa messa. A prima vista, questa domanda sembrerebbe invocare una risposta negativa, visto che quasi ad ogni istante, essi si presentano come gli ardenti difensori della liturgia in generale e della liturgia eucaristica in particolare, e proclamano spesso l’eccellenza della messa, a tal punto che in ciò essi sembrano superare di gran lunga i cattolici tradizionali. Tuttavia, non bisogna dimenticarsi che, allorché si proclama qualcosa in termini che non si accordano perfettamente con la sana dottrina, in generale, si finisce per denigrare - o meglio per negare - ciò che si era inizialmente approvato. È ciò che insegna la storia. Il razionalismo condusse al suicidio della ragione stessa; il falso fervore eucaristico dei giansenisti finì per distogliere le anime dal SS.mo Sacramento; il liberalismo diede vita al totalitarismo; il paradiso terrestre promesso dai comunisti si rivela sempre di più essere un inferno sulla terra da cui le popolazioni cercano di fuggire. Ci chiediamo: la stessa regola, può essere applicata anche al malsano movimento liturgico già denunciato da Pio XII? Purtroppo, esistono ragioni che inducono a temere che ciò sia possibile. Eccone alcune:

1° - Il commento della B.A.C., al quale abbiamo già largamente attinto, dichiara che un sacerdote non deve mai celebrare messe private (chiamate oggigiorno «messe senza il popolo»), semplicemente per devozione personale (20).

2° - Illustrando il paragrafo dell’«Institutio» dov’è detto che la messa ha un carattere «comunitario», i redattori della B.A.C. scrivono: «Nel nostro impegno pastorale, dobbiamo trarre tutte le conseguenze di queste parole dell’«Institutio». Per esempio: non moltiplicare le messe quando non esiste una reale necessità comune, particolarmente nel corso della settimana. Per questa ragione, non si potrebbe forse pensare che, in questi giorni, sarebbe più che sufficiente per i fedeli avere una messa al mattino ed una alla sera, nelle ore che più si adattano alle esigenze della maggioranza? Ed in questo caso, quando ci siano più sacerdoti che messe, perché non farli concelebrare, raggruppando così il più possibile il popolo?» (21). Ma perché - chiediamo noi - non moltiplicare le messe, visto che la dottrina lo permette e lo consiglia, in vista di favorire al massimo l’assistenza dei fedeli? Ciò tanto più che il vero carattere comunitario (communis) della messa non cessa d’esistere nel corso d’una celebrazione privata (22).

3° - D’altronde, l’idea che la comunione fuori della messa non si armonizzi con le recenti riforme liturgiche si diffonde sempre più tra i sacerdoti ed i fedeli.




Continua J. Paquier: «La messa non era più un sacrificio; Lutero, dunque, rimosse tutto ciò che ricordava questo carattere (23). Altre ragioni contribuirono alle modifiche ch’egli andava ad introdurre. Lutero e Melantone erano professori e quindi l’insegnamento sostituì il sacrificio, e la cattedra l’altare. Il professore non amava i fastosi apparati e quindi il nuovo culto divenne semplice. (24) Tutti i cristiani erano sacerdoti, e dunque tutti dovevano comunicarsi sotto le due specie (25). Nell’Eucarestia, Gesù Cristo non era più costantemente presente: non vi era che durante la funzione e la cena. Dunque, tranne che per l’ufficio, non si doveva più pregare in chiesa. E per coronare il tutto, la lingua volgare, come del resto nella Chiesa primitiva, venne introdotta nel culto e rimpiazzò il latino, la lingua ufficiale della Chiesa d’Occidente. Tramite quest’innovazione, Lutero si riavvicinò al popolo e riuscì ad interessarlo alla causa della Riforma (27). E infine, al primo posto si riteneva esserci il sermone, al secondo la preghiera, e solamente al terzo la confessione e la cena(28). Tuttavia, i cambiamenti furono introdotti molto timidamente; così lo volle un certo buon senso di Lutero e la falsità del suo contegno. Egli anestetizzò la popolazione o, secondo la sua espressione «manipolò le coscienze dei deboli» (Weimar, tomo XII, pag. 48, 1523). Nelle chiese, il popolo trovò press’a poco gli stessi riti di un tempo; lo stesso nome di messa, questo nome che veniva da Maozim, un idolo descritto dal profeta Daniele (Tiscchreden, tomo IV, n. 5.037, 1540), questo nome orrendo venne conservato. E così, ad anni di distanza dalla loro conversione al luteranesimo, le comunità dei cristiani ignoravano di essere separate da Roma e dalla Chiesa cattolica» (29). Il successo delle misure temporizzatrici adottate da Lutero tra coloro che avrebbero prontamente reagito se solo avessero saputo dove, fin dall’inizio, li si stava conducendo, ha veramente dell’incredibile. Questa lezione di storia cre oggi, per molte anime, l’obbligo grave di prevenire i loro fratelli nella fede contro il processo che si sta abbattendo contro di noi, poiché, come abbiamo visto, alcune riforme profonde e cariche di conseguenze possono svilupparsi «timidamente» ed in modo molto graduale. È per questo motivo che ci si domanda con apprensione fino a qual punto potrebbe evolversi la liturgia partorita dall’«Institutio» e dal nuovo «Ordo», tanto più che tale evoluzione è divenuta multiforme ed ipso facto molto libera, in virtù delle facoltà accordate ai vescovi ed alle Conferenze episcopali d’introdurre nella loro giurisdizione, previa l’autorizzazione della Santa Sede, alcune innovazioni non previste dai libri liturgici. A questo, occorre aggiungere le attribuzioni attualmente molto grandi, di cui godono le stesse Conferenze episcopali nelle applicazioni concrete dei principi dettati dall’«Institutio». Si può temere che, attraverso l’esercizio di tali facoltà, condizionato dai particolarismi di ogni regione e mosso dalla logica interna delle cose, il processo di modernizzazione della liturgia sarà ritardato, in modo da assicurargli una singolare efficacia che gli consenta di giungere a delle radicalizzazioni ed a delle esagerazioni di ogni tipo. In Olanda, per esempio, le innovazioni saranno forse numerose ed estremiste, mentre in Brasile si svilupperanno in maniera più elastica e graduale. In tutti i paesi, alcune misure di conciliazione saranno utilizzate per fiaccare eventuali resistenze; nel frattempo il processo sarà indubbiamente applicato il più velocemente possibile. Un eventuale ricorso a queste temporizzazioni con la «coscienza dei deboli» sarà ancora più pericoloso, poiché molti cattolici tradizionalisti sembrano non ravvisare il pericolo che presenta questo modo lento di procedere della Rivoluzione(31). «È con queste preoccupazioni pratiche e dottrinali - continua J. Paquier - che Lutero riformò la messa. Alla fine del 1523, egli scrive, ancora in latino, il suo Breve trattato della messa e della comunione, ed agli inizi del 1526, in tedesco, La mesa tedesca e l’ordine del servizio di Dio […] (32). La prima messa tedesca venne celebrata a Wittenberg il 29 ottobre 1525 (33). Questa messa è stata integralmente conservata dal luteranesimo contemporaneo» (34). Come si può osservare, il processo rivoluzionario luterano in un certo senso si arrestò, divenendogli così impossibile attuare le estreme conseguenze del pensiero di Lutero. Senza alcun dubbio, altre sette ed altre scuole si incaricarono di portare avanti il cammino della Rivoluzione (35). Ma occorre qui sottolineare la stasi che fermò il luteranesimo a metà percorso. Ciò fu soprattutto provocato da alcune reazioni di origine tradizionalista che si verificarono in seno a determinati circoli luterani, come effetto delle energiche e salutari misure prese dal Concilio di Trento. Eccoci nuovamente di fronte ad un’altra lezione di storia che ci mostra, non solamente come le possibilità di successo delle rigorose ed intransigenti reazioni cattoliche siano grandi, ma anche con quale prudenza gli pseudo-riformatori dovettero agire al fine di evitare la stasi dei processi rivoluzionari da essi stessi innescati. «In linea generale - scrive J. Paquier - la mesa luterana o cena non avveniva che alla domenica. Nondimeno, si mantenne anche il culto quotidiano; al posto della messa, si faceva una lettura della Bibbia, seguita da un sermone, da preghiere e da canti di salmi. Le feste dei Santi disparvero a poco a poco. In ogni caso, per la Vergine e per gli altri Santi si doveva semplicemente avere un culto d’onore, evitando d’invocarLi come intercessori presso Dio. È solamente in questo senso ch’era permesso conservare le loro immagini»(36). Dopo aver descritto le modifiche che Lutero apportò alla liturgia degli altri sacramenti, J. Paquier fa un’osservazione che si presta anch’essa ad alcuni curiosi paragoni con gli avvenimenti attuali: «Questi sono i tratti principali del nascente culto luterano. Moli dettagli rimasero imprecisi, e si modificarono di anno in anno, o da una città all’altra» (37).




Per completare questo articolo, riportiamo qui un breve scritto sulla riforma liturgica di Zuiglio dello storico Jean Rilliet: «Il Giovedì santo 13 aprile 1525, il Venerdì santo ed il giorno di Pasqua sotto le volte meravigliate del Grand-Münster, il culto si svolse secondo un ordine assolutamente nuovo. Il tedesco bandì completamente il latino della liturgia. I cori non cantavano più. All’entrata del coro, si elevarono solamente le voci di Zuiglio e dei due sacerdoti che l’assistevano, recitando alternativamente dei testi estratti dai salmi o dal Credo. Ad intervalli regolari, la folla che pigiata nella chiesa gli rispondeva con dei responsori: Dio sia lodato, Amen, o ancora inginocchiata, recitava con loro il Padre Nostro. La cena sostituì la messa […]. «Le specie del santo banchetto furono riposte su di un normalissimo tavolo. Zuiglio officiò stando rivolto verso l’assemblea anziché stare, come nella liturgia romana, voltato verso l’altare. In seguito, alcuni accoliti distribuirono tra i banchi il pane ai fedeli, i quali ne presero con le loro stesse mani un boccone portandolo alla bocca. «Il calice, portato allo stesso modo, circolò in seguito da un fedele all’altro. La facilità con cui la Chiesa si separò da una tradizione plurisecolare è sbalorditiva. Per molti anni, i partigiani della vecchia fede furono autorizzati a recarsi alla domenica nei cantoni dell’Argovia e dello Schwiz, a Dietikon, a Baden o a Einsiedeln, dove vi ritrovavano i paramenti sacerdotali, l’incenso, il Kyrie eleison, il Gloria e la confessione, scomparsi dai santuari di Zurigo. Nel 1528, poco dopo il passaggio di Berna alla Riforma, quando le relazioni tra i Confederati si fecero tese, la tolleranza cadde» (38).

 

B) I TEMPOREGGIAMENTI DI LUTERO

 

Nello stesso Dizionario di teologia cattolica, all’articolo Messa, J. Rivière presenta altri elementi significativi a proposito delle innovazioni liturgiche dei primi protestanti: «Fin dal primo momento, alcune gravi divergenze d’opinioni scoppiarono tra i riformatori sul significato e sul valore dell’Eucarestia, ma tutti, luterani o sacramentari, furono d’accordo sul rifiuto del carattere sacrificale della messa che la cristianità aveva sempre riconosciuto (39). La Riforma tedesca si riservò, sia di scatenare la guerra contro la Chiesa cattolica, che di organizzare le comunità conquistate al nuovo Vangelo. Se il primo compito autorizzava il più completo radicalismo dottrinale, il secondo richiedeva qualche precauzione a riguardo delle usanze precedentemente ereditate da queste comunità. La posizione teorica e pratica delle chiese luterane sulla messa risentì di questa duplice ispirazione (40). «Tutti i principi e tutte le passioni di riformatore si accordavano in Lutero nel fargli rigettare la dottrina tradizionale della messa. Così questo punto divenne uno dei tanti contro cui egli si accanì in modo particolare. Questa presa di posizione era motivata dal fatto che facendo ciò egli era cosciente di attaccare, non solamente un dettaglio, ma la pietra angolare della cittadella cattolica. Triumphata missa puto nos totum papam triumpHare (41), affermò nel suo scritto Henricum regem Angliæ (1522, ed. di Weimar, tomo X b, pag. 220). L’importanza della posta in gioco spiega facilmente la violenza dell’assalto» (42). Poco più avanti, J. Rivière insiste sul fatto che un principio ammesso da Lutero, prima della sua rottura con la Chiesa, lasciava prevedere il suo orientamento futuro: «Lutero non ammise che la comunione eucaristica fosse separata dalla Parola di Dio: Simul enim sacramentum et Evangelium est sumendum (Diz. supp. Salt., 1513-1516, sl. CX, Weimar, tomo IV, pag. 236) (43). Da cui egli concludeva (Decem præcepta… prædicata populo, 1518, Weimar, tomo I, pagg. 441-445): Ideo non licet missam perficere sine Evangeli, privatam privato, publicam publico (44). Vedasi anche la sua spiegazione del Pater in tedesco (1519, Weimar, tomo II, pag. 112), ma ciò non significa che egli dubitasse già sulla realtà del sacrificio della messa (45). «Non è il caso d’insistere sul fatto che Lutero dava talvolta alla messa il nome di sacrificium laudis […], poiché questo aspetto verissimo non escludeva che essa ne presentasse altri ed il riformatore ammetteva, sugli stessi punti, che la messa agisce ex opere operato, ed incitava anche ad aggiungervi il sacrificio personale(46). «In un sermone in lingua tedesca sul SS.mo Sacramento, stampato nel 1520 (Weimar, tomo VI, pagg. 73-83), Lutero osservò il silenzio sulla questione del suo valore sacrificale (47), ma non tardò molto a mettere in rilievo la sua opposizione a questo articolo della fede cattolica. «La sua convinzione venne formulata già nel sermone sulle buone opere (1520, Weimar, tomoVI, pag. 231), dove egli l’abbozzò con qualche parola ed annunciò per il futuro uno svolgimento più esauriente. Ciò fu l’oggetto di un sermone speciale «sul Nuovo Testamento, e cioè sulla santa messa» (48), che apparve lo stesso anno (ibid., pagg. 353-378). L’autore vi sostenne l’idea che concepire la messa come un sacrificio costituiva «l’abuso peggiore» (pag. 365), e che essa non era nient’altro che un testamento, e cioè un beneficio ricevuto da Dio, e non un’offerta fatta a Lui (49). L’unico sacrificio era costituito dalle preghiere di ringraziamento che noi indirizziamo a Dio in riconoscenza dei benefici da Lui ricevuti. E Lutero faceva poi riferimento all’epoca primitiva in cui i fedeli portavano in chiesa alcuni doni in natura, che il sacerdote benediceva e su cui pronunciava una preghiera eucaristica. Di questa usanza egli volle la sopravvivenza nel rito dell’offertorio; ma, a partire da ciò, nulla nella messa attestava che essa era un sacrificio» (50). Nei paragrafi seguenti, J. Rivière espone le teorie di Lutero che abbiamo appena analizzato (51), sul carattere non sacrificale della messa. Per concludere, egli scrive che, secondo lui, «[…] Cristo non ha celebrato un atto rituale, ma un banchetto; tutto ciò che è stato aggiunto in seguito alla semplicità della prima cena non è che un cerimoniale senza valore»(52). Più avanti, J. Paquier fa notare che Lutero, «[…] non interdisse ai sacerdoti di celebrare la messa, a patto che essi interpretassero le formule del messale secondo la sua teologia del sacrificio, e che non avessero altro scopo che quello di dare la comunione ai fedeli e di pregare per essi» (53).




Terminiamo questo articolo enumerando rapidamente altri fatti che si riferiscono agl’inizi del protestantesimo, narrati da J. Rivière:

 

1° - In una lettera indirizzata a Melantone il 1° agosto 1521, Lutero gli propose di non celebrare mai più una messa privata di propria iniziativa (54).

 

2° - Gli agostiniani del convento di Wittenberg, che seguirono i passi di Lutero, introdussero nella liturgia alcuni profondi cambiamenti. Essi cominciarono distribuendo la comunione sotto le due specie, proibendo anche la comunione sotto una sola specie, giungendo in seguito a sopprimere anche le messe private (55).

 

3° - Mentre si diceva favorevole alla comunione sotto le due specie, Melantone dichiarò che una messa privata non era nient’altro «che una trama di puro teatro» (nisi merum ludibrium, mera scena). Egli negò alla messa il suo carattere di sacrificio ed insistette sul principio del sacerdozio universale, confondendo così il sacerdozio del prete e quello del popolo (56).

 

4° - Anche Lutero, in un’opera pubblicata nel febbraio del 1521, «si applicò dunque a mostrare come la Sacra Scrittura non conoscesse altro sacerdozio che quello di Cristo, al quale partecipavano egualmente tutti i cristiani» (57).

 

5° - Sulla dottrina della messa esposta nella celebre Confessione di Augusta, il primo e principale simbolo di fede delle chiese luterane, scrive J. Rivière: «[…] la messa fu l’oggetto d’una esposizione molto vasta, ma non troppo esplicita, nella Confessione d’Augusta […]. «Nessun dubbio sul fatto che la redazione di questo celebre documento sia un capolavoro di abilità e di moderazione. La messa non figura nella prima parte, consacrata agli articuli fidei præcipui, ma solamente nella seconda, tra gli articuli in quibus recensetur abusus mutati, dopo la questione dell’uso del calice per i fedeli e quella del matrimonio dei sacerdoti, il che è stato evidentemente calcolato per lasciare intendere che si tratta di problemi puramente disciplinari. «Falso accusantur Ecclesiæ nostræ quod missam aboleant. Retinetur enim missa apud nos et summa reverentia celebratur. Dichiarazione rassicurante! Ci si libera dello scrupolo fino a proclamare un conformismo liturgico quasi completo: Sevantur et usitatæ cerimoniæ fere omnes. La sola differenza era che alcuni canti in lingua volgare erano stati aggiunti agli inni latini, e nulla avrebbe potuto essere più naturale e benefico. Dopodiché, il popolo veniva invitato alla comunione e preparato a riceverla con delle pie istruzioni sul valore del sacramento. Buona parte del culto era evidentemente orientata a procurare la gloria di Dio ed il bene delle anime. Da qui, questa conclusione leggermente ironica: Itaque non videntur apud adversarios missæ maiore religione fieri quam apud nos» (58).

 

C) UN LIBRO LUTERANO SULLA LITURGIA

 

Al fine di completare le osservazioni fatte sulla riforma liturgica di Lutero, andiamo ora ad analizzare alcuni elementi forniti dall’opera The Lutheran liturgy (La liturgia luterana) di Luther D. Reed (59). L’autore, un pastore luterano statunitense, ha scritto molti libri su questo soggetto ed ha insegnato liturgia per trentaquattro anni nel seminario teologico luterano di Filadelfia. È inoltre uno dei promotori del movimento che da una settantina d’anni a questa parte sta tentando di apportare negli Stati Uniti una certa uniformità nella liturgia luterana. Siccome abbiamo già trattato i principi dottrinali della riforma liturgica luterana, ci limiteremo qui a riportare alcune osservazioni di L. Reed su tale questione, richiamando in modo particolare l’attenzione, su alcune considerazioni liturgiche fatte dall’autore, che forniscono gli elementi necessari per confrontare il nuovo «Ordo» ed il banchetto luterano.




Il rifiuto della nozione messa-sacrificio propiziatorio: «L’idea di sacrificio non può essere dissociata da quella di sacramento; in effetti, il memoriale che Nostro Signore comandò di perpetuare ha per fondamento l’opinione che il Suo Corpo fu offerto ed il Suo Sangue sparso per il riscatto degli uomini. Tutti i cristiani riconoscono il sacrificio di Cristo sulla Croce come l’unico sacrificio del tutto sufficiente per il perdono dei peccati. Le loro opinioni divergono sugli aspetti soggettivi del sacrificio, ed il modo e l’ampiezza della partecipazione dei credenti al sacrificio di Cristo. Noi non possiamo comprometterci con le concezioni dei pagani o dei cristiani di Roma (anziché con quelle dei primi cristiani) sull’offerta di cose materiali e della nostra azione umana come sacrificio propiziatorio. Pertanto, noi riconosciamo il sacrificio eucaristico di lode e di ringraziamento; esistono altre concezioni di sacrificio che, benché valide, caddero in sospetto durante le violente dispute della Riforma sulla necessità di opporsi in blocco alla credenza medievale del sacrificio propiziatorio.




Ecco alcune caratteristiche generali della riforma di Lutero: «Gli sforzi costruttivi di Lutero hanno promosso in maniera determinante i servizi vernacolari e la partecipazione attiva della congregazione al culto. Egli diede una grande importanza al sermone, rese il calice a tutti i partecipanti ed accrebbe grandemente la frequenza alla comunione (61). «[…] i luterani, particolarmente in Germania ed in Scandinavia, trovarono nel culto una nuova e significativa conquista in cui tutti potevano partecipare ed allietarsi. L. Fendt disse: «In nessun’altra parte della Riforma i suoi polsi (Blut-welle) battono così caldamente come nel suo culto. Il culto è il corpo attraverso il quale lo spirito di Lutero è penetrato nella vita del popolo» (Der lutherische Gottesdienst des 16, Jahrhunderts, par. V). Quando per culto, nella sua trama, si intende non solamente la liturgia, ma anche alcune lunghe letture della Sacra Scrittura, una predicazione efficace, ed un grande sviluppo del canto della congregazione e del canto corale artistico, si comprende come ciò non sia affatto esagerato» (62).




Il carattere comunitario del culto luterano: «Privilegiando la classe sacerdotale e privando i laici di ogni partecipazione attiva, la Chiesa medievale ha distrutto l’unità anteriore ed il senso del culto comunitario. La Riforma ha corretto questa situazione. Essa ha rimesso al suo posto il sacerdozio dei credenti ed il carattere comunitario del culto. Le messe senza comunicanti furono proibite, e fu promossa la comunione effettiva del popolo. L’uso del vernacolare, unito allo sviluppo degli inni e della predicazione al popolo, costituirono dei fattori determinanti. L’ODIERNO MOVIMENTO LITURGICO MONDIALE DELLA CHIESA CATTOLICA ROMANA È UNO SFORZO TARDIVO PER FAVORIRE LA PARTECIPAZIONE ATTIVA ED INTELLIGENTE DEI LAICI ALLA MESSA, IN MODO CHE IL POPOLO POSSA CREDERSI CONCELEBRANTE CON IL SACERDOTE» (63).




Il Confiteor, l’offertorio ed il canone luterani: «La riforma liturgica compiuta da Lutero e dai suoi seguaci è l’omissione dell’offertorio e del canone. Fino a questo punto, le linee generali della messa medievale erano state conservate e, salvo che per il Confiteor, comparativamente, non furono apportate al testo che poche modifiche» (64). Esaminiamo ora con particolare attenzione il Confiteor, l’offertorio ed il canone del banchetto luterano.

 

1. Il Confiteor luterano.

 

Confrontando il Confiteor del nuovo «Ordo missæ» con quello dei luterani, occorre tenere presente il fatto che gli pseudo-riformatori incontrarono grandi difficoltà nel comporre un Confiteor che esprimesse le loro dottrine in modo conveniente: «Trovare una forma evangelica di confessione fu un lavoro lento e senza eguali» (65). La principale ragione di questa difficoltà consistette nel fatto che tutti i testi conosciuti erano di composizione medievale. E così, i riformatori, «vista la loro impurità dottrinale, non poterono utilizzare le formule esistenti» (66). Tuttavia, tra il Confiteor del nuovo «Ordo» e quello dei luterani, esistono alcuni punti comuni che richiamano la nostra attenzione.




Scrive L. Reed: «Riconoscendo il principio del sacerdozio di tutti i credenti, la confessione diviene un atto congregazionalista anziché sacerdotale (67), per cui alcune parti del Confiteor luterano non sono recitate che dal ministro, altre sono dialogate con il popolo ed infine, altre sono pronunciate dal ministro e dal popolo contemporaneamente» (68). Anche nel nuovo «Ordo», il Confiteor è composto da parti recitate dal solo sacerdote, da altre dialogate con il popolo, e di un Confiteor propriamente detto, recitato all’unisono dal sacerdote e dal popolo. Per giustificare questo modo di procedere, l’«Institutio» della Commissione liturgica incluse l’«atto penitenziale» nelle «parti molto utili per manifestare e favorire la partecipazione attiva dei fedeli, e che sono attribuite a tutta l’assemblea» (N° 16). Esso è stato collocato anche tra i riti «il cui scopo è di far risaltare il fatto che i fedeli riuniti costituiscono una comunità e si dispongono ad ascoltare come si deve la Parola di Dio, ed a celebrare degnamente l’Eucarestia» (N° 24). Il fatto che l’«atto penitenziale» «è realizzato da tutta la comunità, per mezzo di una confessione generale», è ugualmente sottolineato (N° 29). In termini incisivi, gli autori della B.A.C. insistono sul carattere comunitario del nuovo «rito penitenziale»: «La liturgia d’entrata deve condurre alla rivelazione della presenza di Dio nell’assemblea, alla creazione di una comunità di fede ed alla sua preparazione a ricevere la Parola di Dio e ad offrire il sacrificio. Il rito penitenziale, nel contesto dell’entrata, è particolarmente valorizzato e può essere considerato, più di tutto, come una novità del nuovo «Ordo», che ci prepara e ci dispone alla celebrazione dei sacri misteri» (69).




Nell’opera di L. Reed, leggiamo: «Essa [la confessione] fu indirizzata [dai riformatori] a Dio solo, e tutti i riferimenti all’intercessione della Vergine e dei Santi furono omessi» (70). Il «rito penitenziale» del nuovo «Ordo» consiste in tre formule tra le quali il sacerdote deve scegliere quella che egli ritiene essere la più appropriata. La seconda e la terza non contengono alcun riferimento né alla Vergine né ai Santi. La prima, che è una brutta copia del Confiteor tradizionale, elimina interamente nella sua introduzione, cioè nella confessione dei peccati, il riferimento «alla beata sempre Vergine Maria, a San Michele Arcangelo, a San Giovanni Battista, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi»; nella parte finale, è presente una laconica richiesta d’intercessione indirizzata alla «beata sempre Vergine Maria, agli Angeli, ai Santi […]».




Come si sa, secondo la dottrina protestante, i peccati degli uomini non sono, propriamente parlando, cancellati dai meriti di Cristo e dalla pratica delle buone opere, ma sono semplicemente coperti nel credente, dai meriti di Nostro Signore. Benché la liturgia luterana contenga alcune espressioni come «remissione dei peccati», «penitenza», «perdono» (71), questi termini debbono essere interpretati secondo le dottrine protestanti, ed esistono degli indizi che mostrano inequivocabilmente quale sia l’interpretazione che i protestanti accettano; al termine della confessione, il ministro non da l’assoluzione, ma fa ciò che si chiama una «dichiarazione di grazia» (72); nel testo liturgico, non si fa alcuna allusione alla conversione dei peccatori, ma è sufficiente «credere al nome di Cristo» per essere figli di Dio (73). Anche nel nuovo «Ordo missæ», esistono alcuni termini, che apparentemente, sono sufficienti per esprimere la dottrina cattolica sulla remissione dei peccati, come «penitenza», «confessione dei peccati», «perdono», «cuori contriti», ecc… Ma alcune delle innovazioni introdotte fanno temere che queste espressioni vengano interpretate in modo tutt’altro che tradizionale, causando un rilassamento della fede in certi dogmi relativi al perdono dei peccati. A questo riguardo, in particolare, i redattori della B.A.C. attribuiscono all’«Institutio» un’intenzione francamente inconciliabile con la dottrina cattolica. Essi dicono: «Per introdurre le tre formule dell’atto penitenziale, viene proposta la seguente ammonizione: «Fratelli, prima di celebrare i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati», a cui segue un breve silenzio (74). Prescrivere questa breve ammonizione preliminare evita il pericolo che, in questo momento, qualcuno non faccia una succinta omelia al fine di suscitare dei sentimenti di conversione» (75). Si noterà che, mentre il sacerdote ed il commentatore possono fornire numerose spiegazioni e fare diverse osservazioni nel corso della nuova messa (76), la possibilità che avrebbe il sacerdote di suscitare dei «sentimenti di pentimento» prima del Confiteor, costituisce un «pericolo»… D’altra parte, due preghiere della messa tradizionale, che marcano chiaramente i principi cattolici concernenti il perdono dei peccati, sono stati eliminati dal nuovo «Ordo»:

1° - «L’onnipotente e misericordioso Iddio conceda a noi il perdono, l’assoluzione e la remissione dei nostri peccati. Amen.»

2° - «Toglici, o Signore, le nostre iniquità affinché con anima pura meritiamo di entrare nel Santo dei Santi. Per Gesù Cristo Nostro Signore. Amen.»

 

2. L’offertorio luterano

 

Nella Chiesa primitiva, i fedeli portavano le loro offerte all’altare al momento dell’offertorio. Era il simbolo del dono che facevano di sè stessi a Dio, assicurando anche il mantenimento dei sacerdoti e sovvenendo ai bisogni dei poveri. Con il tempo, questa cerimonia si arricchì di magnifiche preghiere che esprimevano il senso sacrificale della messa ed il suo fine propiziatorio, in cui si pregava Dio per i vivi e per i morti. Quando la processione dell’offertorio cadde in disuso, queste preghiere che, in realtà erano contrarie alle concezioni di Lutero sul fine della messa, furono accantonate. Esponendo l’atteggiamento dei protestanti quanto all’offertorio, L. Reed scrive: «La processione dell’offertorio continuò a svolgersi in molte località fino al Medio Evo. Quando essa finì per scomparire, fu rimpiazzata da una serie di cerimonie e di preghiere di carattere assolutamente diverso. Queste ultime si svilupparono come una funzione sacerdotale, e non come un’azione del popolo. Esse anticipavano la Consacrazione ed il «miracolo della messa» (77) ed invocavano la benedizione di Dio in vista del sacrificio eucaristico che stava per essere offerto. «Nel XIV secolo, quello che veniva chiamato il «piccolo canone» includeva, a fianco di alcune preghiere, la mescolanza dell’acqua e del vino, l’offerta dell’Ostia e del calice, l’incensazione dell’altare, del pane e del vino e la lavanda delle mani. Le preghiere dell’offertorio erano di origini diverse, principalmente gallicane. Tutti riconoscevano che esse erano di qualità inferiore rispetto a quelle del canone che le seguivano. La preghiera centrale dell’offertorio, Suscipe Sancte Pater, è una perfetta esposizione della dottrina cattolica romana sul sacrificio della messa (78) […]. «Tutti i riformatori rigettarono l’offertorio romano e la sua idea di un’offerta per i peccati compiuta dal sacerdote, al posto di un’offerta di riconoscenza fatta dal popolo. Lutero, con la sua convinzione che il sacramento è un dono fatto da Dio all’uomo, e non un’offerta fatta dall’uomo a Dio (79), definiva l’offertorio romano un’«abominazione» in cui si «intende e si sente ovunque l’oblazione». «Ripudiando con tutto il canone tutto ciò che puzza di sacrificio e di offertorio - scrive Lutero - non conserviamo che tutto ciò che è puro e santo, ed ordiniamo così la nostra messa» (Formula missæ, 1523)» (80).




Il nuovo offertorio conserva alcune espressioni che, a prima vista, sembrano in contraddizione con le dottrine di Lutero sul perdono dei peccati e sulla messa in generale: «sacrificio», «cuore contrito», «offerta» del pane e del vino, «lavami, Signore, da ogni colpa…», ecc… Tuttavia, un’analisi attenta dei testi mostra che vi si trovano alcune espressioni, facendo uso di termini pressoché identici, nei versetti dei salmi ed in altri testi dell’offertorio della messa luterana (81): «I sacrifici di Dio sono un’anima affranta: un cuore umiliato e contrito, o Dio, non lo disprezzate»; «Allora voi sarete soddisfatto dai sacrifici della giustizia: con un’offerta consumata, un’offerta interamente consumata»; «Io Vi offrirei un sacrificio di riconoscenza»; «Create in me un cuore puro, o mio Dio»; ecc…




I luterani ridussero l’offertorio alla presentazione dei doni fatti dal popolo e alla preparazione del pane e del vino per la comunione (82). Anche nel nuovo «Ordo», l’offertorio sembrerebbe essere in questa direzione. La processione dell’offertorio, restaurata anche da numerose comunità luterane (83), insiste sulla parte svolta dal popolo nell0offerta dei doni, ed il titolo dato all’offertorio, «preparazione dei doni» (84), tenta d’introdurre tra i cattolici l’idea che, in questa parte della messa, l’azione del sacerdote consista essenzialmente nella «preparazione» del pane e del vino per la loro distribuzione al popolo; allo stesso tempo, come semplice accompagnamento, si recita o si canta qualche preghiera (85).




La «preghiera della Chiesa», detta anche «preghiera universale» o «preghiera dei fedeli», fa parte dell’offertorio luterano. Questa parte della messa, che aveva cessato di essere utilizzata, è stata ricollocata prima dell’offertorio dal Concilio Vaticano II (86), e l’«Institutio» la presenta ora come una preghiera in cui il popolo «esercita la sua funzione sacerdotale» (N° 45). Anche i redattori della B.A.C. le attribuiscono una grande importanza, definendola «intercessione sacerdotale del popolo di Dio», «appartenente alla struttura stessa della celebrazione», «come uno dei numerosi elementi fissi, invariabili ed imperativi» (87). A riguardo della preghiera dei fedeli, L. Reed scrive: «È uno degli elementi di base della liturgia, e senza dubbio quello che, più di ogni altro, illustra l’esercizio attivo della congregazione nelle sue funzioni di sacerdozio dei credenti. Si sente d’istinto che il servizio principale del Giorno del Signore o di un’altra commemorazione non sarebbe completo senza questa forma di preghiera, nobile pura ed accettabile» (88). «La Riforma - spiega L. Reed - restituì questa preghiera generale della Chiesa alle liturgie luterane ed anglicane, dopo che essa aveva degenerato nel Medio Evo in una sequela di commemorazioni dei defunti, di invocazioni dei Santi, ecc…, sparse nell’offertorio e nel canone» (89). D’altronde, sia presso i luterani che dopo il nuovo «Ordo», la preghiera dei fedeli è fatta a Dio in favore delle autorità civili e religiose, per gli uomini di tutte le condizioni, e per la salvezza del mondo intero (90). I luterani la recitano senza interruzioni, oppure facendo seguire a ciascuna invocazione questo responso da parte del popolo: «Vi supplichiamo di ascoltarci, Signore buono» (91). In accordo con le riforme post-conciliari e con il nuovo «Ordo», il popolo risponde a ciascuna invocazione del sacerdote: «Ascoltaci, o Signore». Riferendosi all’offertorio ed alla preghiera dei fedeli nelle liturgie protestanti, scrive L. Reed: «Gli sviluppi della Riforma restaurarono così al servizio della comunione [e cioè della messa] due tratti importanti dell’antico culto cristiano: l’offerta dei doni e l’offerta di lode e d’intercessione per il popolo» (92). Questi elementi si ritrovano anche nel nuovo «Ordo missæ».

 

3. Il canone luterano.

 

«Le lunghe preghiere del canone romano - scrive L. Reed - considerano chiaramente l’Eucarestia come un sacrificio propiziatorio. Esse comportano anche delle commemorazioni dei vivi e dei morti, delle venerazioni della Vergine, degli Apostoli e dei Santi, delle preghiere per i defunti, ecc…, e conducono tutte ad una forma abbellita delle parole dell’istituzione, la cui recitazione fatta dal sacerdote è ritenuta capace di assicurare la trasformazione miracolosa del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue stessi di Cristo […]. «Poiché le preghiere del canone romano, con le loro cerimonie, […] erano delle genuine esposizioni della corrotta dottrina del Medio Evo, tutti i riformatori le denunciarono. Furono fatti molti tentativi per rimaneggiarle in senso evangelico» (93). A loro volta, le preghiere eucaristiche del nuovo «Ordo» hanno affievolito i riferimenti alla messa intesa come sacrificio propiziatorio (94); le invocazioni alla Madonna, agli Apostoli ed ai Santi sono state ridotte (95), e lo stesso è accaduto per le preghiere per i defunti e per moltissimi gesti di venerazione e di rispetto (che i protestanti bollano come «abbellimenti anti-evangelici» come gli inchini, le benedizioni, le genuflessioni, i baci, ecc… (97).




Dopo aver illustrato alcune riforme di minor importanza apportate al canone dai protestanti, L. Reed scrive: «Zuiglio sostituì il canone con quattro preghiere che precedevano le verba (parole) (98). A Ginevra, Calvino sviluppò un prefazio elaborato e grossolanamente didattico che ometteva praticamente tutto l’antico canone. L’arcivescovo Cranmer, nel Libro di preghiera comune inglese (1549), giunse in modo costruttivo a mettere a punto un’estesa preghiera di consacrazione, che rinnovava una gran parte del canone in senso evangelico e che miscelava alcuni passi delle liturgie dell’Est e dell’Ovest. «Di tutti i riformatori, Lutero fu il più veemente nella denuncia del canone. Egli lo trattò da «canone storpiato ed abominevole, affluente di tutte le fonti della sporcizia e della corruzione», e dichiarò che esso snaturava lo stesso Sacramento facendone «idolatria e sacrilegio maledetti». Egli dichiarò che attraverso la ripetizione silenziosa delle verba, «il diavolo ci ha magistralmente rubato l’essenziale della messa e l’ha resa silenziosa». «Prendendo spunto dal fatto che il canone era recitato segretamente, egli suggerì di omettere tutto ciò che menzionava il sacrificio, evitando così che il popolo ignaro vi trovasse alcunché di strano. La sua Formula missæ [testo della messa in latino] eliminava tutto il canone, tranne che le verba, che il ministro doveva cantare ad alta voce. La preghiera del Signore e la Pace seguivano subito dopo. Nella messa in tedesco, innanzitutto egli mise una parafrasi della preghiera del Signore, seguita dalle verba. «Questa fu la più radicale delle riforme liturgiche di Lutero [quella del canone] […]. In un sol colpo pieno d’audacia, su questo punto, egli cambiò completamente il carattere della liturgia. La santa Comunione ridivenne un sacramento, o dono di Dio, e non più un sacrificio offerto a Dio» (99).




Nel nuovo «Ordo», il canone viene chiamato «preghiera eucaristica» e definito come «una preghiera di riconoscenza e di santificazione» («Institutio», N° 54). Presso la Chiesa primitiva, questa espressione era abituale. Il termine «canone» è stato conservato solo per la prima preghiera eucaristica: il canone romano. Scrive L. Reed: «Preghiera eucaristica: nell’usanza luterana, preghiera di riconoscenza alla santa comunione»; ed in seguito dice di riferirsi al canone (100). Reed riserva la parola «canone» al canone romano, pur ammettendo che, storicamente, essa ha un senso più largo (101).




Una controversia, vecchia come il tempo, tra cattolici e protestanti, è quella che inerente al momento della Consacrazione. Negando la transustanziazione, i protestanti non hanno alcuna ragione per ammettere che Nostro Signore divenga presente nel momento stesso in cui, sono pronunciate le parole della Consacrazione. Charles M. Jacobs, uno scrittore luterano molto apprezzato nella sua setta, scrive: «La presenza reale di Cristo con il pane ed il vino dell’Eucarestia, non presenta alcuna difficoltà per la fede. Se noi crediamo che Gesù è morto e resuscitato, e che Egli è il nostro Signore ed il nostro Salvatore vivente, perché non credere che Egli è ivi realmente presente e come lo desidera? Se noi crediamo che Cristo che oggi vive è realmente lo stesso Gesù che subì le sofferenze della Croce, perché dubiteremo che la Sua umanità, come la Sua divinità, sono presenti nel e con il sacramento? Se noi crediamo che, tramite la Resurrezione, il corpo umano di Cristo è stato trasformato per divenire, secondo la frase di San Paolo, «un corpo mistico», perché esiteremo di fronte all’idea di una «presenza corporale»? […]. «Noi che crediamo alla Sua presenza siamo sicuri che essa è «reale». Essa non dipende dalla fede di coloro che ricevono il Sacramento, né di coloro che lo amministrano, ma essa è la stessa per tutti, per i credenti e gli increduli, per coloro che sono vicini a Dio e per quelli che Gli sono lontani. Ciò non dipende in alcun modo dalla percezione che noi abbiamo di questa presenza. Ma per tutti coloro che ne sono coscienti, essa è una sicurezza supplementare che conferisce il Sacramento, «del perdono dei peccati, della vita e della salvezza». Essa è uno dei «segni» che rafforzano ed accrescono la nostra fede» (102). Come si può notare, in questa concezione non c’è posto né per la transustanziazione, né per la determinazione dell’istante preciso in cui Nostro Signore diviene presente sull’altare. Per questa ragione, confermando ciò che avevamo già osservato, i protestanti negano ciò che essi chiamano con disprezzo il «miracolo della messa», miracolo che i cattolici riconoscono. Per le stesse ragioni, L. Reed scrive: «La Chiesa cattolica romana ha spostato l’accento di offerta e di riconoscenza sulla Consacrazione, ed ha collocato quest’ultima in un istante ben preciso» (103). Alla luce di queste concezioni dei protestanti, l’articolo 2 del N° 48 dell’«Institutio», così come i relativi commenti della B.A.C., assumono un’importanza particolare. Dice l’«Institutio»: «Nella preghiera eucaristica noi ringraziamo Dio per tutta la Sua opera di salvezza e le offerte diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo». Su questo punto i redattori della B.A.C. osservano: «All’articolo 2 è detto che, al momento della preghiera eucaristica il pane umano è convertito nel pane di Cristo, e che anche la Chiesa può unirsi a Gesù Cristo, offrendo la vera oblazione, la vera offerta ed il vero sacrificio della Chiesa. È il senso verticale ed ascendente della vita cristiana. Si noti l’indeterminazione deliberata del momento della conversione delle specie eucaristiche, al fine di evitare di entrare in alcune discussioni scolastiche relative all’istante preciso in cui avviene questa conversione» (104). Ma si osservi come, evitando di entrare in determinate discussioni scolastiche, si intuisca un «Ordo missæ» accettabile per i luterani, e soprattutto, si getti un ombra di dubbio sul dogma della transustanziazione.




Riguardo al testo della Consacrazione, L. Reed scrive: «Nel suo servizio in latino (1523), Lutero ha omesso numerosi decori medievali ed ha aggiunto la frase della Sacra Scrittura «offerto in sacrificio per voi» (come presso i mozarabici), dopo le parole «questo è il mio Corpo». Il Libro di preghiera comune inglese ha seguito la forma luterana […]» (105). <anche l’ordinario della messa del 1969 ha aggiunto alla formula consacratoria «poiché questo è il mio Corpo» (hoc est enim Corpus meum) le parole «offerto in sacrificio per voi» (quod pro vobis tradetur, I Cor.XI, 24) (106).




L’«Institutio» stabilisce che le parole della Consacrazione devono essere pronunciate ad alta voce (nn. 10 e 12). Anche nella messa in latino, come in quella che egli scrisse in tedesco, Lutero decise che queste parole dovevano essere dette ad alta voce (107). Questo modo di fare, comune tra i protestanti, è tuttora conservato nelle attuali liturgie luterane (108).

 

4. Altri aspetti del banchetto luterano

 

Dopo queste osservazioni sul Confiteor, sull’offertorio e sul canone, ci è parso opportuno fare qui altre note sul banchetto luterano.




Come abbiamo già visto (109), il nuovo «Ordo» ha notevolmente ridotto il numero dei segni di Croce fatti dal sacerdote durante la messa. Nell’opera di L. Reed, leggiamo: «La Chiesa dei tempi della Riforma ha reagito contro l’uso eccessivo e superstizioso del segno della Croce che aveva caratterizzato il Medio Evo» (110).




Nella liturgia cattolica tradizionale, il Kyrie eleison è composto da nove invocazioni: tre volte Kyrie eleison, tre volte Christe eleison e tre volte ancora Kyrie eleison. Il nuovo «Ordo», come abbiamo già indicato, le ha ridotte da nove a sei, ed ogni supplica non viene detta che una volta dal sacerdote ed una dal popolo (111). Anche presso i luterani, il Kyrie è detto in sei invocazioni (112).




Come abbiamo precedentemente visto (113), nella prima edizione dell’«Institutio» della Commissione liturgica, la Consacrazione non era indicata che dalle parole «racconta dell’istituzione». Anche i luterani impiegano questa espressione. È per questo che, enumerando le diverse parti della preghiera eucaristica, L. Reed dice essere una di queste il «racconto dell’istituzione del Sacramento» (114). In un altro passo egli annota: «Lutero rigettò tutto il canone, non conservando altro che il racconto scritturale dell’istituzione e la preghiera del Signore» (115). Non si dica che per i luterani si tratta di un semplice racconto storico, quando nel contesto dell’«Institutio» è messo in evidenza il fatto che il pane ed il vino diventano il Corpo ed il Sangue di Nostro Signore. Anche i luterani lo ammettono, visto che non si accenna alla transustanziazione:

«L’uso dei verba in questo punto è più che il semplice racconto di un avvenimento storico o la citazione dell’autorità che si impegna in questo santo passo. Si tratta di un atto di preghiera solenne e collettivo, di un’esaltata celebrazione liturgica, tramite la quale la congregazione nel raccoglimento riceve e conserva le promesse divine e proclama la garanzia divina, invocando la benedizione divina. Questo rito diventa vivente ed esaltante, poiché il ministro non solamente ripete le stesse parole del Signore, ma in una certa misura ne imita anche i gesti. Nel racconto della Sacra Scrittura, gli atti sono importanti come le parole» (116). In seguito, L. Reed cita un testo della The Lutheran cyclopedia inerente alla stessa questione: «Le parole dell’istituzione sono indirizzate a Dio. E se sono la garanzia dell’atto in cui noi siamo impegnati, e della fede nutrita dal Sacramento; esse richiedono ed ottengono dal Signore risorto la grazia tramite la quale il pane ed il vino diventano il Suo Corpo ed il Suo Sangue per coloro che li ricevono» (117). Più avanti, L. Reed scrive: «La Consacrazione è completata dall’amministrazione, senza la quale non c’è il Sacramento» (118).




In molti punti, L. Reed ammette la presenza del Corpo e del Sangue di Nostro Signore nella comunione (119), ed è spiegando il concetto di transustanziazione che egli diverge veramente dai cattolici: «Transustanziazione: dottrina della Chiesa cattolica romana che definisce il modo in cui si effettua il cambiamento nel pane e nel vino al momento della Consacrazione nella messa; la sostanza del pane e del vino divengono la sostanza del Corpo e del Sangue di Cristo, dopodiché rimangono solo gli «accidenti». Questa dottrina è particolarmente ripugnante per i cristiani protestanti» (120). Come si vede, i riferimenti dell’«Institutio», nell’edizione del 1969, al Corpo ed al Sangue di Cristo (121), sono assolutamente insufficienti per escludere ogni interpretazione protestante sul modo in cui Nostro Signore è presente nell’Eucarestia (122).




In relazione con la dottrina della presenza reale, L. Reed scrive: «Per presenza reale, s’intende la presenza di Cristo intero nel Sacramento, sia Cristo-Dio che Cristo-Uomo. Come il calvinista, il luterano nega energicamente l’insegnamento della transustanziazione, ma crede così fermamente come il cattolico romano nella presenza reale» (123). Ancora una volta, dunque, la completa omissione nel testo del 1969 dell’«Institutio», non solamente del termine «transustanziazione» ma anche dell’espressione «presenza reale» riveste un’evidente gravità (124).




Nella Chiesa primitiva, le formule «il Corpo di Cristo» ed «il Sangue di Cristo» erano utilizzate per la distribuzione della comunione. Il popolo rispondeva «Amen». Nella sua messa in latino, Lutero conservò la formula tradizionale: «Il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna. Amen». Nella sua messa in tedesco, egli non adottò nessuna formula (125), il che fece sì che tra i suoi seguaci esistessero numerose varianti. Nelle loro diverse liturgie, gli odierni luterani utilizzano le stesse formule che i cattolici hanno introdotto in questi ultimi anni, e che sono conservate nel nuovo «Ordo»: «il Corpo di Cristo» ed «il Sangue di Cristo» (126).




Tra i protestanti esiste una tendenza generale a depositare il pane ed il calice nelle stesse mani del comunicante. Questa pratica fu immediatamente adottata da Zuiglio, si diffuse più tardi tra gli anglicani e fu autorizzata tra i luterani (127). Il nuovo «Ordo» non autorizza questa pratica, che tuttavia prende sempre più piede in ambiente cattolico.




Da molto tempo i luterani si sforzano di realizzare una certa unità nella loro liturgia. Per giustificare tale sforzo, essi sono basati sul principio che, costituendo un’unica Chiesa, essi non devono avere che un solo libro di preghiere, identico per ogni paese: «una Chiesa, un libro» (128). Ma indipendentemente da un testo adottato da tutti, essi vorrebbero che in ogni «congregazione» fosse lasciato «molto spazio alle diversità di pratica» (129). Questa uniformità liturgica di base in ogni paese, soggetta pertanto a delle variazioni locali, fa pensare alle così grandi difficoltà di cui, in materia liturgica, godono oggi nella Chiesa cattolica le Conferenze episcopali (130), senza scapito per la grande libertà che l’«Institutio» concede ai vescovo, ai sacerdoti ed anche ai semplici fedeli (131).

 

CONCLUSIONE

 

LA NUOVA MESSA E LA COSCIENZA CATTOLICA

 

Alla luce delle considerazioni che abbiamo fin qui esposto, si è obbligati a concludere che la nuova messa non può essere accettata né nella sua versione del 1969, né in quella del 1970. È con il più grande rammarico che facciamo questa osservazione, sapendo perfettamente quali conseguenze ne derivino; ma nondimeno la facciamo con piena convinzione. Non c’è affatto bisogno di esporre nuovamente tutte le ragioni che ci conducono a questa conclusione; vorremmo semplicemente sottolinearne una, che nelle precedenti dispute intorno all’«Ordo» di Paolo VI, non è stata, ci sembra, sufficientemente messa in rilievo. Ed è che una rottura formale con le abitudini fondate sulla tradizione apostolica, soprattutto in materia di culto, implica lo scisma (1). Ora, la tendenza a «desacralizzare» la liturgia non ha la sua originr nella tradizione, ma, al contrario, essa costituisce una rottura formale e violenta con tutte le regole che hanno fin qui guidato il culto cattolico.




Specialmente in ciò che concerne le modifiche introdotte nella nuova messa nel 1970, dobbiamo osservare ciò che segue: 1° - L’intenzione di eliminare il malessere largamente diffuso, provocato dal silenzio assoluto del testo del 1969 a proposito di alcuni termini fondamentali dell’esposizione tradizionale della dottrina eucaristica, come «transustanziazione», «presenza reale» e «propiziazione» è evidente soprattutto nel prologo. Il prologo ha utilizzato queste parole in maniera così parsimoniosa che si potebbe veramente dire che gli ripugnavano. Esso ha presentato queste parole assolutamente indispensabili, semplicemente per impedire che si possa dirle sempre assenti dall’«Institutio». Ad ogni modo, nessuno può pretendere che esse non vi appaiano per esprimere i loro rispettivi concetti in modo da evitare ogni equivoco, come esigerebbe la natura stessa della questione ed il bene delle anime. La maniera (che in un certo senso si potrebbe chiamare uno stato di violenza) in cui questi termini così introdotti appaiono nel testo dell’«Institutio», conduce inevitabilmente a pensare che esse siano presenti come una concessione. Concessione fatta perché indispensabile, ma per nulla desiderata. Ciò rivela il carattere instabile di tutti gli stati di violenza e delle concessioni in cui il cuore non ha alcuna parte.

2° - Le correzioni apportate nel 1970 non sono complete, ma al contrario, oltre ad aver lasciato intatti numerosi passi suscettibili di gravi censure, esse hanno ulteriormente introdotto nuove ambiguità inammissibili concernenti le nozioni di sacerdozio dei fedeli, di presenza reale, ecc… Tra i passi che avrebbero dovuto essere corretti e che non lo sono stati, vogliamo qui indicare, a titolo di esempio, quelli che trattano della lettura ad alta voce delle parole della Consacrazione, come se la loro stessa natura lo esigesse (2), le ambiguità sulla nozione di «presenza» (3), il «carattere presidenziale» della preghiera eucaristica (4), e le relazioni tra la «liturgia della Parola» e la «liturgia eucaristica» (5).

3° - Il fatto che non ci siano state sostanziali rettifiche nell’«Ordo» propriamente detto, è particolarmente grave. Vorremmo attirare l’attenzione del lettore, specialmente, sul fatto che le disposizioni che segnano una rottura profonda e violenta con la tradizione rituale della liturgia cattolica sono state lasciate inalterate.

4° - Visto che si era deciso di modificare così sensibilmente l’«Institutio» al punto di trasformare alcune decine di articoli, è assolutamente incomprensibile che questa riforma del testo non sia stata soddisfacente. Facendo astrazione e non considerando la questione che da un punto di vista strettamente scientifico, si può prevedere a colpo sicuro che gli storici del domani confronteranno questo concentrato composto nel 1970 con ciò ch’è comune alle eresie di tutti i tempi: combattuti e respinti dai cattolici, l’arianesimo si trasformò nel semi-arianesimo, il pelagianesimo nel semi-pelagianesimo, il protestantesimo nel giansenismo, ecc… (6).

5° - Anche dopo le modifiche introdotte, è impossibile accettare la nuova messa. C’è di più: un’analisi serena, obiettiva e scientifica dei fatti rivela che la riforma intrapresa nel 1970 ha avuto come risultato di rendere gli errori meno appariscenti, senza tuttavia eliminarli. Così, le deviazioni dottrinali e le ambiguità del testo sono divenute più sottili e pertanto più pericolose. Ecco una ragione nuova e più forte che impedisce ai cattolici fedeli di accettare il nuovo «Ordo missæ».




Onde evitare malintesi che potrebbero falsare la nostra posizione, occorre che sia ben chiaro che le riserve da noi espresse sui diversi passi della nuova messa, non rivestano tutte la stessa importanza. Nel corso del nostro studio abbiamo sempre cercato di esprimere il senso e la portata precisa di ciascuna delle nostre osservazioni, ma tutte convergono nella stessa direzione. Ne risulta che, nel loro insieme, i nuovi testi della messa meritano riserve più gravi che ciascuna parte presa isolatamente. Ripetiamo che la nostra posizione non è motivata da velleità «contestatarie». Noi non rimettiamo minimamente in questione il principio di autorità nella Santa Chiesa, ma ci domandiamo in quale misura il principio stesso di autorità, secondo la dottrina cattolica più pura, ci obbliga ad accettare o a rifiutare la nuova liturgia della messa. Su questa base, ci troviamo obbligati a concludere che, per amore della Chiesa e della fede che abbiamo ricevuto dai nostri padri, non possumus!




Per concludere, dobbiamo esaminare un ultimo argomento presentato a difesa della nuova messa. Si tratta della questione dei discorsi in cui si dice che Paolo VI abbia riaffermato la dottrina tradizionale a proposito dell’Eucarestia. Molti pensano che l’«Institutio» e l’«Ordo» debbano essere interpretati alla luce di queste dichiarazioni pontificie. Tuttavia, non vediamo come, partendo dai principi dell’ermeneutica ortodossa (7), lo si possa affermare e che queste dichiarazioni abbiano modificato l’immagine che abbiamo precisato nel nostro studio. Di fatto, le affermazioni dal sapore tradizionale che si sono fatte strada nei discorsi di Paolo VI sono giustapposte all’«Institutio» ed all’«Ordo», essendo loro parallele. Ma esse non rettificano ciò che dev’essere oggetto di riserve (8), molto di più, esse sono fonte di perplessità (9).




Noi supplichiamo la SS.ma Vergine di assistere i suoi figli nel mezzo delle terribili tempeste che, ai nostri giorni, causano un’incalcolabile danno alle anime, e ricorriamo solennemente a Lei affinché affretti il giorno in cui il Suo Cuore Immacolato trionferà. In quel giorno, la Santa Chiesa apparirà più raggiante che mai, ed il pontificato romano, roccia incrollabile della verità, illuminerà di nuovo splendore tutte le nazioni della terra.

 

NOTE ALL’INTRODUZIONE

 

(1) Le citazioni di questa Costituzione apostolica e dei documenti da essa promulgati nel 1969 sono estratte dall’edizione-tipica: «Ordo missæ», Tip. Poligl. Vat., 1969, pag. 172.

(2) «Ordo missæ» significa, in senso più ampio, l’«Ordinamento della messa»; in questa accezione, esso include le parti fisse della messa. È in quest’ultima accezione che faremo riferimento all’«Ordo missæ». D’altra parte, come la formula latina tuttora in corso in Occidente, impiegheremo l’espressione «Ordo missæ» o la sua traduzione in lingua volgare, «Ordinario della messa», indifferentemente. Lo useremo anche nella formula latina abbreviata «Ordo».

(3) Chiameremo questo documento più semplicemente «Institutio».

(4) «Consilium Pontificium ad Exsequanda Constitutionem de Sacra Liturgia». È un organo della Santa Sede incaricato, come indica il suo stesso nome, di redigere le norme d’applicazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II, sulla liturgia. Quest’organo è stato in seguito assorbito dalla Sacra Congregazione per il Culto divino, al momento della sua fondazione.

(5) Op. Cit., pagg. 7-8.

(6) Mons. Antonio de Castro Mayer, vescovo di Campos, ha trattato delle condanne formulate dalla Mediator Dei nella sua lettera pastorale Sui problemi dell’apostolato moderno.

(7) Allocuzione del 22.09.1956, al congresso internazionale di Pastorale Liturgica, riunito ad Assisi, A.A.S., 1956, pagg. 711-725.

(8) Enciclica Mediator Dei; allocuzione del 02.11.1954; Istruzione del Sant’Ufficio sull’arte sacra, del 30.06.1952.

(9) I testi del 1970 dell’«Institutio» e dell’«Ordo» saranno direttamente estratti dal Missale Romanum, Tip.

Poligl. Vat. 1970, pag. 966.

(10) Vedere le nostre osservazioni sugli sforzi delle segreterie delle Sacre Congregazioni per il Culto divino finalizzate a negare l’esistenza di deviazioni dottrinali nell’«Institutio» e nell’«Ordo» del 1969 (pagg.   ); sulle loro preoccupazioni per fare in modo che le modifiche del 1970 non intaccassero il testo primitivo, ma che non facessero che chiarire ciò che era già dottrinalmente irreprensibile (pag.   ); sull’insufficienza delle modifiche del 1970 (pagg.   ); sulle temporeggiamenti e le ritirate strategiche di Lutero (pagg.    e seguenti); sulle tendenze della liturgia protestante negli ultimi decenni (pagg.  e seguenti ); sulle contraddizioni che caratterizzano i movimenti eterodossi di tutti i tempi (pagg.  e seguenti); ecc…

 

NOTE CAPITOLO PRIMO

 

(1) Nel primo capitolo, studieremo alcuni aspetti, soprattutto dogmatici, di questo documento, riservandoci allo stesso tempo di analizzare nel terzo capitolo, oltre all’«Ordo» del 1969 (pagg. e seguenti), anche alcune disposizioni pratiche dell’«Institutio» che costituiscono delle vere e proprie rubriche.

(2) Teniamo a precisare che la promulgazione della nuova messa non implica l’infallibilità della Chiesa.

(3) Di J.-M. Martin Patino, A. Pardo, A. Iniesta e P. Farnes, Biblioteca de Autores Cristianos, la cui prima edizione è di giugno del 1969, e nel novembre dello stesso anno era già alla sua ottava edizione. Il P. Josè Maria Martin Patino SJ, che è al primo posto nella lista degli autori, consultore del «Consilium ad Exsequandam Constitutionem de sacra Liturgia», è contemporaneamente segretario della Commissione liturgica spagnola e della Commissione episcopale mista CELAM-Spagna (C.E.M.), incaricato di preparare le traduzioni spagnole deiu testi liturgici (Notitiæ, 1966, pag. 200; 1967, pag. 26). Per ciò che riguarda gli altri tre autori delle Nuevas normas de la misa, non abbiamo potuto sapere se a quel tempo erano consultori del «Consilium», poiché è difficile ottenere una lisata completa dei consultori, il cui numero nel 1966 era di duecento, (vedi Notitiæ, 1966, pag. 345). Per maggior comodità, designeremo questo libro come il «commentario della B.A.C.» sull’«Institutio», ed i suoi autori come i «redattori». Il P. Martin Patino è stato in seguito nominato consultore della Sacra Congregazione per il Culto divino, e vescovo (n.d.E.).

(4) Sul modo con cui le parole «transustanziazione» e «presenza reale» appaiono nel nuovo testo dell’«Institutio», promulgato nel 1970, vedere pagg.

(5) Nelle citazioni che seguono, le maiuscole sono nostre.

(6) Come dimostreremo ulteriormente, l’affermazione secondo cui «le offerte diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo», è ammessa anche dai protestanti, in quanto essa non implica necessariamente la tesi cattolica della transustanziazione (vedi pagg. ). Alcune espressioni simili appaiono a più riprese nell’«Institutio» (vedi ad esempio i nn.).

(7) Questo articolo dell’«Institutio» è stato modificato nel 1970. Noi studieremo e commenteremo questo testo a pag. ).

(8) Benché il N° 60 sia stato modificato nel testo del 1970 dell’«Institutio» (vedi pagg.), l’articolo qui citato non è stato rimaneggiato.

(9) Questo articolo dell’«Institutio» è stato modificato nel 1970. Alle pagg.   ne commentiamo il nuovo testo.

(10) O novo Ordo Missæ, Vosez, Petropolis, 4ª ediz., 1969, pag. 64. La casa editrice Vosez, alla quale allude l’Autore, è una delle principali case editrici del Brasile. L’opuscolo qui citato, O novo Ordo Missæ, è stata la prima e la più importante edizione brasiliana dell’«Institutio», ed è stata rieditata almeno tre volte nel 1969.

(11) Non si può obiettare che anche il Concilio di Trento (Denz.-Sch. 1740) ha insegnato che Nostro Signore ha istituito un sacrificio tramite il quale sarebbe stato rappresentato (repræsentatur) il sacrificio della Croce. Nel contesto della definizione tridentina, al contrario dell’«Institutio», è chiaro che non si tratta di una rappresentazione puramente simbolica. È sufficiente considerare, per esempio, il primo canone sulla messa: «Se qualcuno dice che nella messa non è offerto a Dio un sacrificio vero e giusto, o che Cristo offrendosi non fa che donarsi a noi come alimento, sia anatema» (Denz.-Sch. 1751).

(12) Circa la posizione dei protestanti a questo riguardo, vedi pagg.  

(13) Per difendere l’«Institutio», non si può addurre che neppure i documenti di introduzione al messale tradizionale non impiegano la parola «transustanziazione», poiché questi documenti non sono che delle semplici esposizioni delle rubriche senza alcun carattere dottrinale qualunque, mentre l’«Institutio» è senza dubbio un documento dottrinale, malgrado le dichiarazioni contrarie rilasciate da Mons. Bugnini, segretario della Congregazione incaricata dell’Applicazione della Costituzione sulla Liturgia del Concilio Vaticano II (citeremo e commenteremo questa dichiarazione alle pagg.     ). In realtà, un confronto sommario tra i documenti d’introduzione al messale tradizionale ed all’«Institutio», bastano a verificare il carattere dottrinale di quest’ultima ed il carattere puramente normativo dei primi. A questo riguardo, si vedano anche le dichiarazioni fatte dalla rivista della Commissione liturgica Notitiæ (1968, pag. 181), che noi citiamo alla nota n. 20.

(14) Denz.-Sch., 2629, Denz.-Vmb, 1529.

(15)  ”   ”   ”    ”    ”   ” .

(16) Vedi, per esempio, Schillebeeckx, Transubstanciaçäo…, pagg. 286 e s., confutato da Clark, Adiumenta…

(17) Denz.-Sch. 1642, 1652.

(18) Vedi il Concilio di Trento, Denz.-Sch. 1751 (citiamo questo canone anche alla nota n. 11). In connessione col testo modificato dell’«Institutio», facendo riferimento alla nozione di sacrificio, vedi le pagg.

(19) Vedi pag. 30 e s.

(20) Questa affermazione è falsa. L’«Institutio» è pieno di proposizioni dottrinali. Nessuno oserebbe pretendere, per esempio, che l’asserzione seguente del n. 1 non ha carattere dottrinale: «[nella messa] troviamo il vertice dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, e del culto che gli uomini rendono al Padre, adorandolo tramite Cristo, Figlio di Dio». Forse che questa è «una pura e semplice esposizione d’una regola che predispone la celebrazione eucaristica?». Di tali concetti dottrinali se ne trovano in ogni pagina del documento. La stessa cosa si deve dire del N° 7 sopracitato. Come si può negare che questo testo contiene un’affermazione di ordine dogmatico? Come si può sostenere che ciò che contiene è una semplice «esposizione delle regole che predispongono la celebrazione eucaristica?». Quali sono le «regole» contenute in questo articolo? Se vogliamo evitare i sofismi, dobbiamo assolutamente riconoscere che il N° 7 dell’«Institutio» contiene un’asserzione dottrinale che getta le basi delle «regole che predispongono la celebrazine eucaristica», le quali appaiono in seguito nel documento. Il messale romano tradizionale contiene diversi documenti d’introduzione che non sono «testi dogmatici», ma delle «pure e semplici esposizioni di regole che predispongono la celebrazione eucaristica». Come abbiamo già osservato (vedi nota n. 13), un confronto anche sommario tra i documenti in questione e la recente «Institutio», rivela senza equivoco il carattere dottrinale di quest’ultima ed il carattere puramente pragmatico dei documenti. Inoltre, allorché l’«Institutio» era in cantiere, la Commissione liturgica stessa disse che il documento doveva contenere «ALCUNI PRINCIPI TEOLOGICI, delle norme pastorali e delle rubriche per la celebrazione della messa» (vedi Notitiæ, 1968, pag. 181; le maiuscole sono nostre) ed in un rapporto fatto alla seconda Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano, a Medellin il 30 agosto 1968, Mons. Bugnini ha dichiarato che l’«Institutio» è «un ampio trattato TEOLOGICO, pastorale, CATECHETICO e rubricale, e che essa è un’introduzione alla COMPRENSIONE ed alla celebrazione della messa» (in Revista Eclesiàstica Brasileira, vol. 28, 1968, pag. 628; le maiuscole sono nostre).

(21) Come si vede, lo stesso Mons. Bugnini riconobbe che se il N° 7 della prima edizione dell’«Institutio» conteneva una definizione della messa, meritava le critiche che le erano state mosse.

(22) Forse che il summenzionato testo del N° 7 dell’«Institutio» sarebbe uno di quei paragrafi da cui si arguisce cosa sia la messa? Anche se lo fosse, cadrebbe ancora una volta in un concetto eterodosso della messa. In caso contrario, qual’è lo scopo di questo paragrafo dell’«Institutio», che non può che imbrogliare i fedeli, conducendoli a costruirsi un’idea errata della celebrazione eucaristica? L’osservazione di Mons. Bugnini varrebbe per i documenti d’introduzione al messale romano tradizionale. In effetti, tutti io suoi articoli aiutano i fedeli a comprendere «cosa sia la messa da un punto di vista teologico». Le numerose genuflessioni indicano la piccolezza degli uomini e la grandezza del sacrificio che viene realizzato; l’uso della lingua latina esprime il mistero insondabile ch’è celebrato. Il sacerdote rivolto all’altare, manifesta che agisce come ministro di Dio e non come delegato del popolo e la grande sollecitudine con cui sono trattate le Sacre Specie rivela la nostra fede nella presenza reale, ecc…

(23) L’Osservatore Romano, edizione settimanale in lingua francese, 28 novembre 1969, pag. 12. Dire che il concetto della messa è già conosciuto dai trattati e dai documenti pontifici è un modo per eludere la questione. Si tratta di sapere se il nuovo «Ordo» è realmente in accordo con la teologia tridentina e tradizionale.

(24) È così che uno degli esperti della Commissione liturgica, il P. Vagaggini, O.S.B., lo presenta. Vedi O novo Ordo Missæ e a ortodoxia in Revista Eclesiàstica Brasileira, vol. 30, 1970, pagg. 93-101.

(25) L’adorazione è l’onore reso a Dio in ragione della sua perfezione infinita ed assoluta. Il ringraziamento è la manifestazione della nostra gratitudine verso Dio per i benefici da Lui ricevuti. «Il sacrificio è detto propiziatorio, spiega il P. Aldama (De Sanct. Euch., pag. 338), in quanto esso è un atto gradito da Dio, che giustamente si sente offeso dal peccatore. Questo atto è compiuto tramite il riscatto, il quale è una riparazione secondo una uguaglianza proporzionale all’offesa commessa; esso appartiene alla virtù della giustizia.». Con l’impetrazione, noi chiediamo a Dio nuovi benefici.

(26) Vedi le pagg.

Alle pagg.? dimostriamo come i protestanti siano logici con i loro errori quando rifiutano che la messa abbia il carattere di un sacrificio propiziatorio.

(27) Denz.-Sch. 1743

(28)  ”   ”  1753

(29) Sulla maniera in cui la nozione di propiziazione figura nel testo del 1970 dell’«Institutio», vedi le pagg.?

(30) «Eucarestia» significa etimologicamente ed in senso tecnico, «azione di grazia».

(31) Vedi il testo del 1970 di questo paragrafo dell’«Institutio», a pag.?

(32) Nel testo che segue, le maiuscole sono nostre.

(33) Denz.-Sch., 1751.

(34) Facciamo allusione al libro Nuevas normas de la misa, citato alle pagg.?       dove spieghiamo la ragione per cui commentiamo specialmente questo libro.

(35) Nuevas normas…, pag. 61.

(36) Vedi nota 35.

(37) Ciò in quanto le chiese non devono avere per principale fonte d’ispirazione le nozioni di Croce, di sofferenza, di sacrificio, di propiziazione e di pentimento per i nostri peccati. La misura di tutto è «la parola di Dio», il ringraziamento, l’amore vicendevole, la gioia, ecc…

(38) Vedi nota 35.

(39) Notare l’insinuazione secondo cui Nostro Signore non ha istituito la messa come un sacrificio.

(40) Nuevas normas…, pag. 246.

(41) Vedi a pag. ?, dove indichiamo le modifiche che questo articolo ha subito nel 1970.

(42) Secondo alcuni protestanti, le parole di Cristo non sono pronunciate solamente in modo narrativo. Tuttavia, gli assertori di questa tesi non ammettono in alcun modo che il celebrante le pronunci in maniera assoluta ed imperativa in nome di Nostro Signore, ma sostengono che, oltre al racconto verbale, ci sia una rappresentazione teatrale essenziale nella cerimonia. Come si vede, questo particolare (che tratteremo ex professo a pag. ? ) non ha niente a che vedere con la questione di cui ci stiamo occupando.

(43) È chiaro che non abbiamo nulla contro l’uso dell’espressione narratio institutionis ch’è del resto classica nela teologia cattolica (vedi, per esempio, Lercher, Inst. Theol. Dogm., vol. IV-2-1, pag. 330, nota 303). Ciò che si deve biasimare, è il fatto che le stesse parole della Consacrazione, che devono essere dette in maniera imperativa e non narrativa, sono presentate con il sottotitolo «racconto dell’istituzione» senza altre indicazioni.

(44) Vedi le pagg. ? . L’«Institutio» impiega alcune espressioni come in Persona Christi a tratti, ma lo fa in un contesto dove queste espressioni perdono il senso preciso che gli scolastici gli attribuiscono. È ciò che noi dimostriamo a pag. ? .

(45) Ci riferiamo all’opera della B.A.C. indicata a pag. ? .

(46) Nuevas normas…, pag. 128. Sul carattere protestante di questa affermazione, vedi a pag. ? .

(47) Nuevas normas…, pagg. 31 e 85, i passi commentati da noi alle pagg. ? . I luterani ammettono l’espressione «presenza rale» come lo indichiamo a pag.?

(48) Nuevas normas…, pagg. 123-124, testo che noi commentiamo a pag. ? .

(49) Denz.-Sch. 1764.

(50) Su questo punto si consulti: Solà, De sacramentis…, pagg. 587-588; così come i documenti del Concilio di Trento, del catechismo romano di Pio XII e di S. Agostino citati da Solà.

(51) In ciò che concerne la nuova versione del 1970 di questo articolo dell’«Institutio», vedi a pag. ? .

(52) Vedi a pag. ? .

(53) Vedi i discorsi di Mons. Bugnini a Medellin, che citiamo alla nota 20.

(54) Le maiuscole sono nostre.

(55) Malgrado le gravi censure che esso meritava, questo articolo 10 non è stato modificato nel testo del 1970 dell’«Institutio».

(56) Le maiuscole sono nostre.

(57) Denz.-Sch. 1759.

(58) Il N° 12 dell’«Institutio» non è stato modificato nel 1970.

(59) Osserviamo che, secondo la pratica tradizionale della Chiesa, non c’è esclusivismo in questa materia. Nei numerosi riti, per esempio, la messa è celebrata versus populum ciò che rende perplessi, è il fatto che il nuovo «Ordo» prescrive la messa che non è celebrata versus populum, come un mezzo meno proprio, che non esprime in modo appropriato la funzione «presidenziale» del sacerdote.

(60) Ci riferiamo all’opera citata, pagg. 15-16.

(61) Nuevas normas…, pag. 77.

(62)   ”    ”      , pag. 91.

(63)   ”    ”     , pag. 54.

(64)   ”    ”      , pagg. 142-143.

(65) Denz.-Sch. 1741.

(66) Vedi pag. 30 e s.

(67) Oltre ai già citati nn. 10, 48 e 60 dell’«Institutio» a pag. ?, vedi: N° 1, secondo il quale la celebrazione della messa è un’«azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente organizzato»; ed il N° 4, dove si legge che la celebrazione eucaristica è «un atto di Cristo e della Chiesa».

(68) A proposito delle modifiche che sono state apportate a questo riguardo nell’«Institutio» del 1970, vedi le pagg. ? e s.

(69) In questo passo, i redattori della B.A.C. ignorano un’altra condanna di Trento: «Se qualcuno dice che nel Nuovo Testamento non c’è un sacerdozio visibile ed esteriore […], ma un semplice ministero della predicazione del Vangelo […], sia anatema» (Denz.-Sch. 1771).

(70) Nuevas normas… pagg. 68-70.

(71) Gli autori della B.A.C. si ingannano se pensano che questa concezione sia semplicemente un’opinione della «teologia classica degli ultimi secoli». In realtà, si tratta di un dogma della Santa Chiesa (vedi a questo riguardo: Concilio di Trento, Denz.-Sch. 1767, 1768, 1777, Denz.-Vmb. 960, 967; Hervè, Man. Theol. Dogm., vol. I, pagg. 290, 303, 307 e 321; Tanquerey, Sin. Theol. Dogm. tomo I, pagg. 434 e 454; Salaverri, De Eccl. Christi, pagg. 548 e 604; Iragui-Abàrzuza, Man. Theol. Dogm., vol. I, pag. 278).

(72) La concezione della messa qui presentata dai redattori della B.A.C. è assolutamente falsa. Il celebrante, prima di essere rappresentante e ministro del popolo, è rappresentante e ministro di Cristo. Per questa ragione, egli è autenticamente sacerdos. Dire che la partecipazione dei fedeli alla messa non è inferiore a quella dl ministro, significa negare il dogma del sacerdozio gerarchico e visibile istituito da Nostro Signore nella Chiesa (vedi Concilio di Trento, Denz.-Sch. 1764, 1767, 1771, 1777, Denz.-Vmb. 957, 960,961,967).

(73) Nuevas normas…, pagg. 70-71.

(74) Vedi dom Guèranger, Institut. Liturg., tomo I, pagg. 415-416.

(75) Art. 33.

Si trovano delle espressioni analoghe negli articoli 9 e 35.

(76) Nuevas normas…, pag. 85.

(77)  ”     ”     , pag. 31; le maiuscole sono nostre.

(78) Le maiuscole sono nostre.

(79) Nuevas normas…, le maiuscole sono nostre.

(80) A questo proposito, vedi anche a pag. ?.

(81) Nell’edizione del 1970 di questo paragrafo dell’«Institutio», il riferimento esplicito alla Resurrezione è stato soppresso: vedi a pag. ? .

(82) Anche questo paragrafo è stato modificato nel 1970, essendo da quel momento soppresso il riferimento alla Resurrezione : vedi a pagg. ? .

(83) Nuevas normas…, pag. 95.

 

NOTE AL SECONDO CAPITOLO

 

(1) A riguardo della prudenza con la quale si deve applicare il principio «in dubio pro reo», vedi il nostro articolo Respondendo a objeçôes de un imaginario leitor progressista, in Catolicismo, n° 206, febbraio 1968.

(2) Antonio de Castro Mayer, Carta past, sobre probl. do apost. moderno, 1953, pag. 7.

(3) Dubitando della sincerità di Ario, Costantino gli avrebbe detto: «Se la tua fede è veramente ortodossa, tu hai avuto ragione a prestare giuramento; se essa è empia, Dio ti giudichi per il tuo giuramento» (cit. da X. Le Bachelet, art. Arianesimo, in Dictionnaire de thèologie catholique, col. 1805).

Sant’Alessandro, l’anziano vescovo della città imperiale pregò Dio perché o lo ritirasse dal mondo o di evitare la riabilitazione di Ario. E lo stesso giorno, allorché attraversava la città accompagnato da un numeroso seguito, l’eretico subì una morte abominevole, tanto che gli antichi storici gli applicarono le parole della Sacra Scrittura su Giuda: «diffusa sunt viscera eius» (Act. I, 18; vedi Le Bachelet, op. cit., col. 1805-1806).

(4) R. Hedde e E. Amann, art. Pelagianesimo, in Dictionnaire de thèologie catholique, col. 684.

(5) R. Hedde e E. Amann, op. cit., col. 693.

(6) Vedi R. Hedde e E. Amann, op. cit., col. 697-698. In seguito San Zosimo s’accorse d’essere stato ingannato dai pelagiani e li condannò.

(7) «In disputatione loquacissimus, in contentione calumniosissimus, in professione mendacissimus» (Op. imp. libro IV, 52) cit. de R. Hedde e E. Amann, op. cit., col. 702.

(8) Art. Monotelismo, in Dictionnaire de thèologie catholique, col. 2307.

(9) Riportiamo interamente questo passo a pag. ? .

(10) J. Paquier, art. Lutero, in Dictionnaire de thèologie catholique, col. 1305.

(11) J. Paquier, op. cit., col. 1306.

(12) J. Rivière, art. Messa, in Dictionnaire de thèologie catholique, col. 1807.

Riproduciamo ampi estratti di questo testo di J. Rivière a pag. ? .

(13) J. Rivière, op. cit., col. 1089.

(14) San Roberto Bellarmino, De Ecclesia militante, libro III, cap. 11, pag. 94. L’affermazione è fondata sulla dichiarazione di un teologo protestante, Fridericus Staphilus, convertito al cattolicesimo.

(15) Terza proposizione condannata da Innocenzo X nel 1653: «Allo scopo di guadagnare dei meriti o d’incorrere nella colpevolezza nello stato di natura decaduto, non è necessario che l’uomo abbia la libertà che esclude la necessità, ma la libertà che esclude la coercizione è sufficiente« (Denz.-Sch. 2003).

(16) J. Carreyre, art. Giansenismo, in Dictionnaire de thèologie catholique, col. 488.

(17) Per Alessandro VII fu altrettanto necessario di definire che questi errori furono trovati in Augustinus (Denz.-Sch. 2010-2012).

(18) J. Carreyre, op. cit., col. 488-489.

(19) Vedi, in accordo con ciò, J. Carreyre, op. cit., col. 324.

(20) San Pio X, enciclica Pascendi Dominicis gregis, pag. 108; le maiuscole sono nostre.

(21) Tomo I, pagg. 414-425. Vedi anche il concetto d’«eresia antiliturgica», pagg. 405-414.

(22) Dom Prosper Guèranger, Institut. liturg., tomo I, pagg. 417-418.

(23) Sul senso di quest’espressione in Husserl, vedi Lalande Vocab. tecnico e critico della filosofia, art. Parentesis; Foulquiè-Saint-Jean, Dict. de la langue philos., art. Epoché, Parenthèses, Rèduction phènomènologique.

(24) Vedi Plinio Corrêa de Oliveira, Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo.

(25) «Institutio», N° 1.

(26) Riproduciamo questo testo a pag. ? .

(27)     ”        ”     ”  a pag. ? .

(28) Per delle ragioni identiche, l’impiego di espressioni ambigue ed ingannevoli, di eufemismi, ecc…, non è presso i modernisti una semplice tattica propagandistica, ma un mezzo metafisicamente indispensabile per provocare la «frizione» di idee contraddittorie capace d’ingenerare la sintesi redentrice (su questa nozione di «frizione» hegeliana delle idee, vedi Plinio Corrêa de Oliveira, op. cit.).

(29) Herder, San Paolo, 1965.

(30) Haëring, op. cit., pagg. 334-335.

(31)   ”     ”  ” , pagg. 336-337.

(32) Haëring, op. cit., pagg. 333-334; le maiuscole sono nostre.

(33) Il testo completo di questo discorso è contenuto in Fr. Bonaventura Kloppenburg, Concilio Vaticano II, vol. V, pagg. 149-151.

(34) Kloppenburg, op. cit., pag. 188.

(35)     ”       ”  ” , pag. 188.

(36) L’indissolubilità del matrimonio nella riflessione cattolica dopo Trento, in Revista Eclesiàstica Brasileira, vol. 28, 1968, pagg. 99-109.

(37) Hoornaert, op. cit., pag. 99.

(38)    ”      ”  ” , pag. 100.

(39)    ”      ”  ” , pag. 100.

(40)    ”      ”  ” , pagg. 102-103.

(41)    ”      ”  ” , pag. 106.

(42) Occorre qui stabilire un principio generale: quando si vuole sinceramente e veramente dissipare i sospetti che pesano su di un testo che presenta alcune tracce di neo-modernismo, non basta porvi accanto una dichiarazione ortodossa. Una misura di questo genere non può che aggravare l’ambiguità ed arrecare più confusione agli animi. Ma sarebbe assolutamente indispensabile rettificare i passi oscuri, equivoci ed eterodossi. Sarebbe assolutamente necessario che, oltre all’insegnamento della sana dottrina nella sua integrità, si sciolga la falsa unione tra la verità e l’errore che caratterizza l’hegelismo, la fenomenologia ed il neo-modernismo. Non usare queste misure, significa dare ai propri figli del pane mescolato a delle pietre, e del pesce mescolato a dei serpenti.

 

NOTE AL CAPITOLO TERZO

 

(1) Nota 1, pag. ?. Come abbiamo già detto (pagg. ?), in questo capitolo analizzeremo più specificatamente l’«Ordo» del 1969, indicando tuttavia, quando ciò sarà necessario, le modifiche introdotte nel 1970 (che sono studiate ex professo al capitolo quarto, pagg. ?), cosicché si potrà vedere come nel 1970 non ci siano affatto stati dei rimaneggiamenti sui punti dell’«Ordo» del 1969 che abbiamo denunciato come meritevoli di censure.

(2) Non pretendiamo qui di esaminare la questione in maniera del tutto esaustiva, ma solamente di analizzare gli aspetti più significativi della nuova messa, rivelatori dello spirito che essa inculca ai fedeli.

(3) Quando ciò sarà necessario, indicheremo al lettore le espressioni latine; normalmente presenteremo solamente una traduzione letterale del testo latino.

(4) L formula tradizionale eliminata dal nuovo «Ordo» della messa, è: «L’onnipotente e misericordioso Iddio conceda a noi il perdono, l’assoluzione e la remissione dei nostri peccati.».

(5) Altre osservazioni sul Confiteor saranno fatte quando analizzeremo la cena luterana, pagg. ? .

(6) «V. - O Dio, rivolgiti a noi e rendici la vita.

R. - Ed il tuo popolo in Te gioirà.

V. - Mostraci, Signore, la tua misericordia.

R. - E donaci la tua salvezza.

V. - Signore, esaudisci la mia preghiera.

R. - Ed il mio grido giunga fino a Te.

V. - Il Signore sia con voi.

R. - E con il tuo spirito.»

(7) Il sacerdote dice questa preghiera mentre ascende all’altare. La sua formula originale è: «Toglici, o Signore, le nostre iniquità affinché con anima pura meritiamo di entrare nel Santo dei Santi (l’altare). Per Cristo Nostro Signore. Amen.

(8) Questa preghiera si rifà specialmente ai Santi le cui reliquie sono nell’altare: «Noi Vi preghiamo, o Signore, per i meriti dei Vostri Santi le cui reliquie riposano qui, e di tutti i Santi, di degnarVi di perdonare tutti i nostri peccati. Amen.

(9) Si dice questa preghiera prima del Vangelo. Dal testo da noi qui riprodotto, il nuovo «Ordo» ha soppresso tutto ciò che si trova tra parentesi: «Purifica il mio cuore e le mie labbra, o Dio onnipotente (come mondasti con carbone acceso le labbra del profeta Isaia: con la Tua misericordia mondami) affinché io possa degnamente annunciare il Tuo Santo Vangelo. Per Cristo Nostro Signore. Amen.».

(10) Come diremo più avanti (pagg. ?), il nuovo «Ordo» ha eliminato l’offertorio tradizionale, sostituendolo con una semplice «preparazione delle offerte», che lo avvicina alla liturgia protestante (vedi specialmente pagg. ?). Quasi tutte le preghiere che sono state soppresse affermano nettamente la nozione di perdono dei peccati.

(11) Nel testo tradizionale di questa preghiera, della quale riproduciamo qui l’inizio, mettiamo tra parentesi le parole che sono scomparse nel nuovo «Ordo»: «La comunione con il Tuo Corpo, Signore Gesù Cristo, (che io indegno ardisco ricevere), non diventi per me giudizio di condanna, […].».

(12) «Ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, Signore, accogliamo con anima pura, e di temporaneo dono ci diventi rimedio sempiterno.».

(13) «Signore, il Tuo Corpo che ho preso ed il Tuo Sangue che ho bevuto aderiscano all’anima mia, e fa che non rimanga macchia di peccato alcuna in me, che questi puri e santi sacramenti hanno rinnovato, Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.».

(14) «O Santa Trinità, -Ti piaccia l’omaggio della mia servitù e concedi che questo sacrificio offerto da me indegno agli occhi della tua maestà a Te sia accetto, ed a me ed a quelli per i quali l’ho offerto torni, per tua bontà, giovevole. Per Cristo Nostro Signore. Amen.».

(15) Vedi pagg. ?.

(16) Oltre alle preghiere Suscipe Sancta Trinitas e Placeat tibi, indirizzate alla SS.ma Trinità, le invocazioni trinitarie che chiudono numerose preghiere dell’«Ordo»tradizionale sono scomparse: Deus, qui humanæ substantiæ, Libera nos quæsumus, Domine Iesu Christe, Fili Dei vivi e Perceptio Corporis.

(17) Evidentemente, questa tendenza a non insistere sul mistero della SS.ma Trinità comporta delle pericolose ripercussioni nell’ecumenismo, favorendo un sincretismo di sapore modernista con le religioni non-cristiane.

(18) A pag. ? , dimostriamo come la diminuzione d’invocazioni del Kyrie piaccia ad alcuni protestanti.

(19) A pag. ?, analizzeremo più ampiamente la posizione dei protestanti su questo argomento.

(20) San Roberto Bellarmino: «Non si deve negare che nella messa, in un certo qual modo, il pane ed il vino sono offerti, e che dunque essi fanno parte di ciò che viene sacrificato.» (De missa, libro I, cap. 27, pag. 552). «[…] nella messa non si offre il pane come un sacrificio completo, ma come un sacrificio incoativo che deve essere completato.» (ibid., pag. 253). «L’oblazione del pane e del vino che precede la Consacrazione fa parte dell’integrità e della pienezza del sacrificio» (ibid., pag. 523). Suarez: «[…] Cristo ha offerto ed istituito questo sacrificio in qualità di Gran Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech; dunque, in un certo qual modo, Egli ha offerto il pane ed il vino, non solo come materia, ma anche come termine di oblazione, poiché tale era il sacrificio di Melchisedech» (in parte III, disp. 75, I set., n. 9, pag. 653). «Noi affermiamo qui che l’offerta non è semplicemente costituita da Cristo, ma anche, in un certo qual modo, dal pane e dal vino. Ciò non significa che ci siano due sacrifici, in quanto questi due elementi costituiscono i termini a quo e ad quem del medesimo sacrificio, poiché il pane diventa il Corpo di Cristo, la cui presenza santifica la specie» (ibid., n. 12, pag. 653). Cornelio a Lapide, commentando il passo di San Matteo (XXVI, 26) dove si legge che Nostro Signore benedice il pane prima della Consacrazione, scrive: «Cristo non ha benedetto il Padre, come dicono gli eretici, ma ha benedetto il pane ed il vino» (pag. 555). Diekamp-Hoffmann (edizione del 1934): «Nell’offertorio della messa, le sostanze del pane e del vino sono offerte come ostia secondaria [hostia secundaria], affinché Dio possa convertirli in ostia primaria [hostia primaria]» (Man. Theol. Dogm., vol. IV, pag. 224). C. Callewaert (+ 1943), difendendo la tesi secondo cui l’offertorio non è una semplice preparazione al sacrificio, ma piuttosto una vera oblazione, «un dono fatto a Dio con intenzione sacrificale» (De offerenda…, pag. 70), scrive: «Apparentemente, il primo a scagliarsi contro il concetto tradizionale di oblazione fu Lutero. Con l’obiettivo di negare alla messa la sua natura di vero sacrificio, egli ragionava contro i cattolici nella seguente maniera: «non si può dare niente a Dio, poiché Egli possiede già tutto; poiché nella messa non è possibile fare un’oblazione come dono, nella messa, dunque, non c’è nessun sacrificio» (ibid., pag. 70). Esprimono la stessa opinione De Lugo, De Sacr. Euc., disp. XIX, set. VII, n. 99, pagg. 208-209; Bossuet, Explication de quelques difficultès…, nn. 36-37, cit. da Billot, De Eccl. Sacr., I, pagg. 599-600; Pesch, prælactiones…, vol. VI, pag. 382; Billot, loc. cit.; Fortescue, La messe, pagg. 391-392; Gihr, Il santo sacrificio della messa, pagg. 196, 218, 222 e 233; Penido, O Mist. do sacram., pagg. 288-289; Abàrzuza, Man. Theol. Dogm., vol. IV, pag. 280. Vedi anche: Concilio di Firenze, Denz.-Sch. 1320; Jungmann, El mist. de la misa, pagg. 51-54, 629-671 e 741-744; Garrido, Curso de liturgia, pagg. 266-267, ed anche i testi liturgici ed i numerosi Padri della Chiesa citati da questi autori: Sant’Ireneo, Tertulliano, Origene, San Cipriano, Sant’Ippolito, Sant’Agostino e San Gregorio il Grande.

(21) Vedi pag. ? .

(22) ”   ”  ? .

(23) Vedi questo passaggio integrale pagg. ? .

(24) Citiamo e commentiamo queste affermazioni di Lutero a pagg. ? .

(25) Citiamo il testo integrale di L. Reed a pagg. ? . In parte, la soppressione di questa preghiera, come quella di molte altre, è dovuta al principio secondo cui bisogna omettere «tutto ciò che è stato ripetuto nel corso dei tempi, o ciò che era stato aggiunto senza vera necessità» (Const. Sacros. Conc., n. 50, vedi anche Const. Apost. Missale Rom., pag. 10). A proposito di questa preghiera in particolare, essa è evidentemente utile, almeno per affermare il dogma cattolico contro l’eresia protestante. D’altra parte, il rifiuto sistematico dei doppioni e delle anticipazioni ci sembra contrario allo spirito tradizionale della Chiesa.

 

(nota sul retro della copertina)

 

Come ogni protestante, Max Thurian, della comunità di Taizè (ora «sacerdote» (!?!) cattolico), professa, a proposito della messa, alcune dottrine condannate dalla Chiesa. Tuttavia, egli pensa che si possa celebrare l’Eucarestia seguendo il nuovo rito introdotto da Paolo VI nel 1969. Tu che sei cattolico, e che quindi non professi gli errori di Max Thurian, pensi ugualmente di potere in coscienza assistere ad una messa celebrata da un sacerdote cattolico secondo il nuovo rito? Chi interpreta correttamente il nuovo «Ordo»: tu o Max Thurian? Si tratta di un problema che nessun cattolico istruito può evitare di studiare, poiché la messa gioca un ruolo centrale nel culto cattolico. L’offertorio è una delle parti più importanti della messa. Cosa deve contenere per sua natura? Un’offerta in spirito d’oblazione e di propiziazione, o solamente una «presentazione dei doni»? Può una messa senza offertorio essere accettata all’interno di una sana dottrina? E può essere accettata se ha un offertorio che è diventato una semplice «presentazione dei doni» priva di un vero senso di oblazione? Questo studio di Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira ha appunto lo scopo di rispondere a queste pressanti ed importantissime domande.

NOTA BIBLIOGRAFICA

 

Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira è nato a San Paolo (Brasile) nel 1929. Dopo gli studi secondari al Collegio San Luigi, retto dai Padri Gesuiti, è entrato alla Facoltà di Diritto dell’Università Cattolica Pontificia di San Paolo, uscendone nel 1956 laureato in Scienze Giuridiche e Sociali. In seguito, ha studiato filosofia al Grande Seminario Centrale dell’Immacolata Concezione, creato per gli stati del sud del Brasile. Dal 1956 al 1963, ha insegnato Morale e Sociologia alla Facoltà di Filosofia, di Scienze e di Lettere di San Benedetto ed alla Facoltà di Scienze Economiche «Cuore di Gesù», entrambe dell’Università Cattolica Pontificia di San Paolo. In passato è stato uno dei principali collaboratori del mensile di cultura «Catolicismo», pubblicato sotto l’egida di S. E. Mons. Antonio de Castro Mayer, già Vescovo della diocesi di Campos (Brasile). Tra i lavori che ha pubblicato su questo giornale, si può segnalare tutta una serie di articoli inerenti il Magistero della Chiesa e l’Infallibilità. Questi articoli furono poi pubblicati dalla stampa specializzata e non-specializzata, e sono stati riprodotti da alcune riviste di cultura cattolica dell’Argentina, del Cile, dell’Uruguay, della Columbia, del Venezuela, degli Stai Uniti, del Portogallo e della Spagna. Quattro di essi sono stati tradotti e pubblicati sulla rivista mensile italiana «Cristianità»:

- «QUAL È L’AUTORITÀ DOTTRINALE DEI DOCUMENTI PONTIFICI E CONCILIARI?» (ANNI III, N° 9, GEN-FEB 1975, PAG. 3);

- «VI PUÒ ESSERE ERRORE NEI DOCUMENTI DEL MAGISTERO?» (ANNO III, N° 10, MAR-APR 1975, PAG. 11);

- «RESISTENZA PUBBLICA A DECISIONI DELL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA» (ANNO III, N° 13, SET-OTT 1975, PAG. 6);

- «NON SOLTANTO L’ERESIA PUÒ ESSERE CONDANNATA DALL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA» (ANNO VI, N° 40-41, AGO-SET 1978, PAG. 5).